Non so chi curi, oggi, la comunicazione dei Benetton, ma la lettera di Luciano al governo rischia di diventare il più grande autogol della storia di un’azienda cresciuta proprio grazie alla comunicazione. Scrive Benetton: “Le notizie di questi giorni su omessi controlli, su sensori guasti non rinnovati o falsi report ci colpiscono e sorprendono in modo grave, allo stesso modo in cui colpiscono e sorprendono l’opinione pubblica. Ci sentiamo feriti come cittadini, come imprenditori e come azionisti. Come famiglia Benetton ci riteniamo parte lesa. Di sicuro ci assumiamo la responsabilità di aver contribuito ad avallare la definizione di un management – prosegue – che si è dimostrato non idoneo”.
Ci può stare, ma se dopo che sono morte 42 persone impieghi 15 mesi a scoprire che il management era “non idoneo” e lo fai solo quando, per puro caso, si è schivata un’altra strage e un’intera regione è paralizzata dal collasso delle tue infrastrutture, allora devi cambiare anche il logo della ditta e scegliere come testimonial una figura più arcaica dei giovani che si cambiano maglioni globali, e cioè Penelope, la moglie di Ulisse. Anche lei “era nel tessile” e anche lei era imbattibile nell’arte della dilazione: sopportò i “menager” le avevano occupato la casa per 11 anni.
Battute a parte, il vero problema, che nessun Oliviero Toscani e nessun genio della comunicazione potrà mai recuperare, è che il crollo del Ponte Morandi non è un incidente molto “europeo”. E’ un tipico incidente da terzo mondo, proprio come le infrastrutture di questo paese. Un incidente che rinvia ad altri incidenti “da terzo mondo” come quello avvenuto in Bangladesh.
“Benetton – raccontava Repubblica il 17 aprile 2015 – ha deciso di risarcire con 1,1 milioni di dollari le vittime del crollo del Rana Plaza, in Bangladesh, dove il 23 aprile del 2013 morirono 1.138 persone e altre 2mila furono ferite nel crollo del palazzo dove erano stipati lavoratori tessili, che producevano per vari marchi occidentali. Benetton era appunto uno dei 29 marchi collegati a società operanti nell’edificio del Rana Plaza. La cifra rappresenta più del doppio rispetto ai 500mila dollari individuati dalla società di revisione Pwc, incaricata di indicare la misura dell’indennizzo. Con il versamento di Benetton al Rana Plaza Trust Fund, creato ad hoc per risarcire le vittime, mancano ancora circa 7 milioni all’obiettivo prefissato di 30 milioni. Complessivamente, a questo punto Benetton ha versato 1,6 milioni per le vittime. L’annuncio del gruppo giunge dopo una campagna di sensibilizzazione che ha coinvolto un milione di persone mobilitate dall’organizzazione internazionale Avaaz. “Il contributo di Benetton non è certamente sufficiente a risarcire la morte e le sofferenze causate dal loro vestiti – ha dichiarato Dalia Hashad, direttore delle campagne di Avaaz – ma è solo grazie alla richiesta di oltre un milione di persone che hanno finalmente cambiato posizione e deciso di contribuire”.
Anche in quel caso il management era sicuramente “non idoneo”, ma chi gli ha aveva dato mano libera per anni? Se Benetton avesse spedito Toscani a documentare in quali condizioni si producevano i suoi maglioni “United Colors”, forse ora 1138 persone sarebbero ancora vive.