Non so chi curi, oggi, la comunicazione dei Benetton, ma la lettera di Luciano al governo rischia di diventare il più grande autogol della storia di un’azienda cresciuta proprio grazie alla comunicazione. Scrive Benetton: “Le notizie di questi giorni su omessi controlli, su sensori guasti non rinnovati o falsi report ci colpiscono e sorprendono in modo grave, allo stesso modo in cui colpiscono e sorprendono l’opinione pubblica. Ci sentiamo feriti come cittadini, come imprenditori e come azionisti. Come famiglia Benetton ci riteniamo parte lesa. Di sicuro ci assumiamo la responsabilità di aver contribuito ad avallare la definizione di un management – prosegue – che si è dimostrato non idoneo”.
Ci può stare, ma se dopo che sono morte 42 persone impieghi 15 mesi a scoprire che il management era “non idoneo” e lo fai solo quando, per puro caso, si è schivata un’altra strage e un’intera regione è paralizzata dal collasso delle tue infrastrutture, allora devi cambiare anche il logo della ditta e scegliere come testimonial una figura più arcaica dei giovani che si cambiano maglioni globali, e cioè Penelope, la moglie di Ulisse. Anche lei “era nel tessile” e anche lei era imbattibile nell’arte della dilazione: sopportò i “menager” le avevano occupato la casa per 11 anni.
Battute a parte, il vero problema, che nessun Oliviero Toscani e nessun genio della comunicazione potrà mai recuperare, è che il crollo del Ponte Morandi non è un incidente molto “europeo”. E’ un tipico incidente da terzo mondo, proprio come le infrastrutture di questo paese. Un incidente che rinvia ad altri incidenti “da terzo mondo” come quello avvenuto in Bangladesh.
Anche in quel caso il management era sicuramente “non idoneo”, ma chi gli ha aveva dato mano libera per anni? Se Benetton avesse spedito Toscani a documentare in quali condizioni si producevano i suoi maglioni “United Colors”, forse ora 1138 persone sarebbero ancora vive.