Crisi delle coltivazioni, siccità, alluvioni e aria irrespirabile degli slum. Tutti elementi che spingono chi vive nei paesi che cercano di uscire da povertà e sottosviluppo ad andarsene. Mattia Dell’Era ed Elisabetta Poli, marito e moglie, tramite la Fondazione L'Albero della vita hanno deciso di documentare l'impatto del cambiamento climatico dall'Africa al Sud est asiatico
“Queste persone non sanno neanche cosa sia il cambiamento climatico. Vedono le terre inaridirsi, e per sopravvivere si spostano. Spesso internamente, oppure con i famosi viaggi della morte sui barconi”. Mattia Dell’Era ha 41 anni e come lavoro fa il responsabile comunicazione digitale della Fondazione L’Albero della Vita, che da vent’anni si occupa di protezione dell’infanzia in Italia e nel mondo. È proprio con L’Albero della Vita che Mattia, dopo un primo viaggio nella regione Samburu, in Kenya, ha deciso di documentare – insieme alla moglie Elisabetta Poli, sua coetanea che ha un lavoro nelle assicurazioni lasciato alle spalle – come il cambiamento climatico sta impattando sulle vite di quei paesi che stanno cercando di uscire da povertà e sottosviluppo. Un progetto che ha preso il nome di Tree Around ME, portato avanti in sinergia con la Congregazione delle Suore Ministre degli Infermi di San Camillo, che ha ospitato la coppia lungo il suo percorso. Hanno già visitato Costa d’Avorio, Kenya, Taiwan e Indonesia ed entro maggio 2020 andranno in Thailandia, India, Filippine, Brasile, Perù, Cile, Haiti quelli che Mattia.
Costa D’Avorio: la crisi delle coltivazioni di cacao – Il primo paese che Mattia ed Elisabetta hanno visitato è la Costa D’Avorio. Parlando con chi ci vive, incluso il Nunzio apostolico, hanno constatato che il cambiamento climatico, in particolare l’aumento delle temperature, mette in crisi le coltivazioni del cacao, che portano reddito a 5 milioni di persone. “Secondo la Banca Mondiale – spiega Mattia – le famiglie in povertà estrema, che vivono con meno di 1,9 dollari al giorno, passeranno in Costa d’Avorio dal 2 al 6 per cento nel 2030, in pratica dai sei milioni di oggi a sette”. È chiaro che queste persone tenderanno a spostarsi. Mattia ci racconta come viene scelto chi diventerà migrante: “Il villaggio decide chi può resistere al viaggio e alle sue difficoltà, e fanno una colletta per farlo o farla partire. Se la persona designata non riesce a migrare, non torna più. Spesso si suicida per la vergogna”. Qui vengono fatte campagne di sensibilizzazione per spiegare alle persone che imbarcarsi spesso significa morire, ma la situazione, a causa dei cambiamenti climatici, è sempre più complessa.
Kenya: dalle campagne agli slum – Il cambiamento climatico impatta anche il Kenya. Nella zona di Samburu, ad esempio, abitata prevalentemente da pastori Masai, la siccità molto forte costringe la popolazione, che non riesce ad abbeverare gli animali, a spostarsi. Questo genera sconfinamento in altre tribù, e spesso porta a scontri per l’acqua. Un contesto in cui i bambini sono costretti ad abbandonare la scuola, e quando ritornano nelle zone natie non riescono a reintegrarsi. L’altro problema, spiegano Mattia ed Elisabetta, ha a che fare con le migrazioni dalle campagne alle città. Le persone si spostano sperando di trovare in città una vita migliore, ma spesso finiscono in slum infernali. “Ne abbiamo visitato uno a Nairobi, vicino alla discarica più grande dell’Africa dell’est – racconta Elisabetta -. L’aria è irrespirabile, nello slum cucinano con fonti fossili, hanno un’unica latrina per duecento persone. Una ragazza, arrivata dalla campagna, ci ha raccontato di essersi ritrovata in una baracca con due figli, e di essere costretta a lavorare nella discarica, pagando addirittura per entrarci. Bisogna ricordare che negli slum le temperature sono più alte di due gradi, le baracche sono di lamiera. Qui abbiamo capito come l’essere umano si adatti a condizioni assurde. Ma il tasso di mortalità infantile è altissimo”.
Taiwan e Indonesia: se l’acqua di mare si mangia i campi – In Asia il cambiamento climatico significa, invece, alluvioni. A Taiwan Mattia ed Elisabetta hanno incontrato popolazioni povere che si confrontano sempre più con eventi estremi, anche se Taiwan sta mettendo in campo massicce iniziative per ridurre le emissioni di carbonio e combattere i cambiamenti climatici. In Indonesia, invece, al problema dei terremoti si aggiunge il drammatico innalzamento dei mari. Il problema risiede nel fatto che il mare salinizza i terreni e li rende infertili. “Si stima che qui il sette per cento del Pil nel 2100 sarà dedicato ad affrontare gli effetti del clima cambiato. L’Indonesia ha firmato gli accordi di Parigi e si impegna a ridurre le emissioni del 30% entro il 2030. Qui la strategia è sostenere le attività economiche rafforzando la sostenibilità degli ecosistemi”. I progetti messi in atto dalla fondazione in questa zona sono importanti e molto originali. Ce li spiega Antonio Bancora, responsabile dei progetti internazionali dell’Albero della Vita. “Nella zona del Golfo del Bengala, che a causa del cambiamento climatico è sempre più alluvionata, rendendo impraticabili le coltivazioni e mettendo a rischio la salute dei bambini dal punto di vista nutrizionale, abbiamo messo in campo opere infrastrutturali di una certa importanza per arginare l’acqua di mare e mantenere quella fresca, sul modello dell’Olanda. Non solo: abbiamo anche inventato dei sistemi di coltivazioni galleggianti, dei gommoni dove si mette terra fresca e si riescono a produrre ortaggi per l’autoconsumo. Abbiamo poi creato un centro di ricerca, dove è stato possibile, anche con l’aiuto della sapienza contadina, creare semi resilienti che si riescono ad adattare al terreno salato e quindi garantiscono i raccolti, visto che le sementi tradizionali non si possono utilizzare”.
Dagli orti galleggianti alle serre contro il caldo: le pratiche sostenibili – In Africa, invece, dove il problema è la siccità, Fondazione L’Albero della Vita ha aiutato contadine e produttrici agricole a innovare la loro capacità di fare agricoltura. “Abbiamo lavorato con un sistema di serre a basso costo, che da un lato sono in grado di mantenere la temperatura costante, dall’altro evitano l’invasione degli animali che distruggono i raccolti – spiega Bancora -. Purtroppo, quando un ecosistema entra in crisi, quando l’acqua si riduce, gli animali reagiscono di conseguenza e tendono a colpire le comunità. Un problema notevole sono, ad esempio, le aggressioni degli elefanti, che stiamo cercando di limitare con sistemi di prevenzione naturale basati sulle api”. Il viaggio non è ancora finito, ma Mattia ed Elisabetta traggono già alcune conclusioni. “Da noi – dice Mattia – il cambiamento climatico ancora non è pienamente percepito, ma qui gli impatti sono evidenti, perché purtroppo il riscaldamento globale colpisce ancora di più i più poveri. Quello che i nostri politici dovrebbero capire è che l’aumento della Co2 è il diretto responsabile delle migrazioni. Vedere queste persone che hanno comunque voglia di vivere, con una resilienza inimmaginabile, è stato incredibile”. “Siamo partiti con molti timori ma anche speranze – aggiunge Elisabetta -. Abbiamo visto cose drammatiche ma anche persone estremamente resilienti, molto più di quanto non lo siano le persone qui. E tantissimi europei che lasciano tutto per andare ad aiutare persone spesso in condizioni inimmaginabili. Persone che fanno rinascere la fiducia nell’essere umano”.