Un blogger critica il governo in un post su Facebook e il governo ordina al social di inserire in calce al post un alert che evidenzia la falsità del contenuto del post. È il risultato della prima sentenza del “tribunale della verità” eseguita nei giorni scorsi a Singapore in esecuzione della nuova legge anti-fake news. E fa venire i brividi a chiunque creda ancora nella libertà di parola.
Un cittadino dice la sua online, il governo ordina a una società privata di bollare come falso il contenuto in questione e la società privata esegue senza battere ciglio e senza alcuna chance di resistere, pena sanzioni pecuniarie a sei zeri. Nessun giudice, nessuna Autorità, nessun processo, nessun fact checking, nessuna verifica terza e imparziale: il potere politico ordina, quello economico esegue e i cittadini e gli utenti del web subiscono passivamente, ritrovandosi imbavagliati da una miscela esplosiva di potere politico e commerciale.
È uno degli scenari più foschi immaginabili nella lotta alle fake news. È la classica cura peggiore del male che si intende curare perché, per scongiurare il rischio che tra milioni di contenuti autentici ve ne sia qualcuno falso, si affida a un dialogo – democraticamente diabolico – tra politica e industria la gestione di un inedito tribunale della verità che metterebbe paura persino se amministrato da giudici veri.
E la “sentenza” appena pronunciata dal governo di Singapore non è neppure la più severa possibile: perché la stessa legge anti-fake news, in forza della quale è stata adottata, prevede che il governo possa spingersi fino a ordinare a Facebook & co. di rimuovere un contenuto o a Google di disindicizzarlo o, piuttosto, condannare l’utente che ha postato il contenuto incriminato e non lo rimuove a multe salatissime.
È semplicemente la strada sbagliata, quella più pericolosa, quella che va in direzione diametralmente opposta rispetto a quella indicata da secoli di lotte per i diritti dell’uomo e dei cittadini. L’attuale e diffusa tendenza dei gestori dei servizi online di ergersi ad arbitri dei contenuti leciti e quelli illeciti – per difendersi dalle continue azioni di responsabilizzazione dei governi nei loro confronti – al confronto impallidisce e sembra un approccio da liceale.
Quella appena andata in scena a Singapore è una scena da film dell’orrore della democrazia, con un governo che decide cosa è vero e cosa è falso e si autoriconosce il potere di esigere che i giganti del web debbano aiutarlo a diffondere il suo verbo.
Siamo davanti a una deriva antidemocratica pericolosa, a un’autentica emergenza dei diritti umani online. E se la comunità internazionale non reagisce in fretta, non si ritrova attorno a un digital new deal. Il futuro all’orizzonte ha le tinte fosche della fine, dell’estinzione delle libertà e delle democrazie proprio in un contesto nel quale, al contrario, le nuove tecnologie potrebbero essere – se governate con equilibrio – uno straordinario fattore di amplificazione democratica.