di Francesca Ceci*
In una Ted talk di alcuni anni fa la scrittrice di origine nigeriana Chimamanda Ngozie Adichie riflette sulle conseguenze della storia unica. Quando una categoria di persone o un intero paese sono raccontati – dai media, dalla letteratura, da chi non vi è mai entrato in contatto – con le stesse ripetitive parole e attraverso immagini stereotipate, con lo stesso tono compassionevole o accusatorio, con lo sguardo di chi da lontano crede di capire pur non conoscendo, ecco che si cristallizzano i pilastri affinché quel paese o quelle persone diventino, nell’immaginario di chi vi si avvicina, esclusivamente quello sguardo tracciato da altri entro binari sicuri in cui è facile adagiarsi e dai quali è difficile deragliare.
L’associazione “Donne Africa Subsahariana e II Generazione”, con sede a Torino, è costituita da donne attive nel contesto socio-culturale regionale e nazionale con l’obiettivo di essere un punto di riferimento tra chi arriva per la prima volta in Italia e chi ha già alle spalle lo stesso percorso. Nata nel 2017, vuole essere non solo un progetto di donne rivolto alle donne, ma un vero “atto di partecipazione attiva alla vita sociale delle nostre città”, società che auspica plurale, in cui ogni persona venga considerata ricchezza e ogni diversità occasione di conoscenza. A tal fine organizza laboratori di cucina somala e senegalese e cene interculturali che si trasformano in occasioni di condivisione e scambio culturale; e ha avviato il progetto If a woman, che raccoglie le richieste e i bisogni delle donne di quartiere per proporre loro attività adeguate alle diverse necessità.
Ma soprattutto ha ideato Haween, uno dei 16 progetti vincitori del Programma PartecipAzione indetto da Intersos e Unhcr con lo scopo di promuovere la protezione e la partecipazione attiva dei rifugiati alla vita economica, sociale e culturale in Italia. Haween, che in somalo significa “donne”, vuole far conoscere un’altra storia dell’immigrazione femminile.
Ho conosciuto l’associazione in una mattina di sole di ottobre, nel cortile della Casa del quartiere di San Salvario a Torino, in occasione della presentazione al pubblico e alle istituzioni del sito realizzato grazie alla vittoria del programma. Dopo il dibattito ufficiale – e dopo un pranzo a base di riso vegetariano e pollo marinato – ho incontrato alcune delle donne parte del progetto, fondatrici e utenti dell’associazione, con le quali ho trascorso il pomeriggio soprattutto ad ascoltare.
La presidente Janet è originaria della Tanzania, vive in Italia da 20 anni e ha ottenuto la cittadinanza nel 2016. È educatrice di professione, si dedica a volontariato e attività sociali da anni, ha una voce serena e gentile, conosce ovviamente tutti. Mi racconta che il suo primo impatto con l’Italia è stato in un paesino di provincia della Sicilia, dove ha imparato prima il dialetto che l’italiano; dove non aveva mai vissuto una donna nera; dove le persone con cui era maggiormente in contatto erano i bambini della sua classe e questa è stata la fortuna che le ha permesso di farsi conoscere.
La decisione di fondare l’associazione è nata qualche anno fa nel momento in cui, insieme ad altre donne, si è chiesta perché dovessero essere sempre gli altri a parlare delle loro vite, perché fosse qualcun altro a doverle rappresentare. Non avrebbero saputo farlo meglio loro stesse? Non avevano forse una voce? Non avrebbero forse avuto altre storie da narrare? Non era loro diritto farlo?
Tutti gli interrogativi posti anni fa hanno trovato risposta nel progetto Haween: alcune donne hanno imparato ad usare i social network nella quotidianità – per cercare lavoro, trovare corsi di formazione, scoprire un libro per bambini -, ad adoperare una telecamera non solo per riprendere ma per raccontare, a servirsi del web come di una pagina bianca su cui lasciare il proprio segno. Ora esiste un blog in cui le associate condividono le storie che hanno raccolto nei centri di accoglienza, scrivono e registrano le testimonianze delle altre donne.
È stato un lavoro catartico e dalla duplice utilità: pragmatico e profondo allo stesso tempo, è servito alle partecipanti per alleggerirsi del peso delle proprie storie e per sentirsi più libere, e servirà a chi vorrà leggere quelle stesse storie per capire e per conoscere, per superare gli ulteriori scogli del silenzio. L’invito, che nel video di presentazione le donne rifugiate rivolgono all’ascoltatore, è “Vieni a conoscermi”, tre parole che costituiscono la risposta ai pericoli della storia unica, il passo da fare per offrire lo spazio a una nuova narrazione, utile e necessaria per avvicinarsi a comprendere cosa vuol dire davvero fare un percorso da rifugiata, incontrare la persona che c’è dietro una statistica, ascoltare un’altra voce.
A. ha dato seguito al suo invito e, pur preferendo la scrittura alla parola, mi dice che vive in Italia da sei anni, dopo un viaggio iniziato in Somalia e proseguito attraverso Kenya, Sudan e Libia. È stata l’unica a partire della sua famiglia, non lo ha scelto lei né i suoi familiari ma era quello che doveva fare. Il viaggio è durato circa un anno e mezzo, di cui quattro mesi trascorsi in una prigione libica e tre tentativi di attraversare il mare per poi tornare indietro a causa della pericolosità dell’imbarcazione.
Oggi vive poco fuori Torino, studia per riprendere il diploma già ottenuto in Somalia e che non le è stato riconosciuto, lavora come mediatrice culturale. Si sente serena perché si sente autonoma e questo è quello che vorrebbe raccontare, non solo cosa ha fatto prima ma cosa sta facendo adesso, come vive il proprio percorso di integrazione. In prigione teneva un diario che ha perso e che ora ha trovato l’occasione di riscrivere.
La storia unica ha molti rischi ma anche molti limiti. È ripetitiva, facilmente noiosa, non offre quasi nulla di vero, appiattisce e spoglia i suoi personaggi della loro identità. Resta una storia da combattere con altre storie.
*Francesca Ceci, vive a Roma. È autrice del grahic novel “Badù e il nemico del sole” (ed. Tunué). Scrive di libri su Flanerì e Altri animali. Suoi articoli e racconti sono stati pubblicati su Il Tascabile, Senza Rossetto, Tre Racconti, Oblique, Firmamento, La balena bianca e altre riviste e antologie.