J.P. Morgan (fondatore della Chase Bank) è stato tra i primi, all’inizio del secolo scorso, a fare una operazione di Pe, Private Equity. La vera diffusione di questa “strategia finanziaria” ha però trovato deciso sviluppo solo negli ultimi 30 anni.
Nel mio lavoro di analista fidi bancario ne ho sentito parlare per la prima volta da un docente Bocconi all’inizio degli anni 80, e mi è apparsa subito una intelligente opzione di “salvataggio” di una azienda altrimenti destinata a fallire.
L’idea di far interagire tutte le forze coinvolte nell’impresa allo scopo di migliorare la redditività e l’operatività dell’unità produttiva era ottima e, se attuata sotto la guida di abili ed esperti manager, poteva effettivamente dare, come in quel caso, ottimi risultati per tutti.
Il caso a noi illustrato rientrava tra quelli classificati come “management buy-out” (Mbo): erano stati cioè i manager stessi a rilevare l’azienda, accollandosi i debiti (in accordo con le banche) e facendo alcune necessarie operazioni di “dimagrimento” finanziario e operativo. I casi più frequenti sono però quelli del “leveraged buy out” (Lbo) in cui sono proprio soggetti terzi (i “Private Equity”, cioè una finanziaria con capitali privati – quindi non quotata in Borsa e senza i relativi vincoli e controlli) a provvedere sia per i capitali necessari, cioè il “leveraged”, la leva finanziaria a supporto dell’operazione, sia per trovare il management necessario a guidare l’azienda nel programma fissato.
Fino al 2008, cioè l’anno della grande crisi, i Pe hanno funzionato più o meno così e con un buon numero di aziende salvate; ma dal 2009 in poi il sopravvento in questa attività è stato preso da professionisti speculatori, gente certamente in gamba sul piano dell’abilità e conoscenza del comparto finanziario ma con obiettivi molto diversi.
E’ così successo, con sempre maggiore frequenza, quello che è stato molto bene illustrato nel film The wolf of Wall Street. Ovvero il progressivo spolpamento di tutto ciò che ha un residuo valore nell’azienda, divenuta “preda” dello sciacallaggio professionale (nel mio articolo del 2012 su Rinascita – Private Equity: le iene della finanza – già descrivevo il cambiamento avvenuto).
E di tutto questo ne dà recentemente testimonianza anche il settimanale Bloomberg Business Week (di proprietà del miliardario americano Bloomberg, ora anche lui aspirante presidente), che il 7 ottobre scorso pubblica online “Everything Is Private Equity Now” (“Tutto è patrimonio privato adesso”) nel quale espone una lunga descrizione (10 pagine, nel magazine) della variegata attività di questi duttilissimi super-manager, che però ormai hanno sostituito al dichiarato scopo del salvataggio aziendale quello molto più attuale, e a loro conveniente, del recupero scientifico di tutto ciò che è “monetizzabile” nel morente patrimonio delle imprese in crisi.
Quello che però è indispensabile sapere (per avere una chiara idea di cosa fanno) è la dettagliata descrizione di come operano. Si presentano dopo aver studiato il più possibile dai bilanci pubblici e da informazioni riservate (ottenute da “amici”) la situazione e offrono la loro “qualificata” collaborazione, a condizione però di avere completa mano libera (sostanzialmente una procura in bianco) nella gestione aziendale e assembleare per fare qualunque cosa necessaria al recupero della redditività fin dal primo o secondo anno.
Forse si fa fatica a crederci, ma ci riescono quasi sempre!
Per prima cosa si assicurano (se c’è un CdA) la maggioranza assoluta in esso, quindi il comando totale su ogni vertice aziendale e naturalmente una cospicua, anzi “stellare”, retribuzione per se stessi e per i loro manager che impongono all’azienda (ovviamente sotto le migliori forme per pagare meno tasse).
Il primo intervento è (sempre!) la riduzione all’osso del personale necessario. Il secondo è quello di riorganizzare l’attività, sempre però più sul piano dei risparmi che su quello dei maggiori ricavi. Contemporaneamente provvedono a “far cassa” vendendo tutti i cespiti patrimoniali liquidabili. Dopo questi primi immediati interventi, che in una media azienda realizzano già in pochi mesi, è per loro possibile presentarsi alle banche dell’azienda e convincere i direttori a ripristinare i fidi e ottenerne persino di nuovi da altre banche.
Tecniche e scopo appaiono a prima vista uguali a quelli originari degli anni 80, ma oggi la finalità è quasi sempre diversa. Lo scopo originario era il salvataggio dell’azienda, oggi è molto spesso solo quello di spolpare scientificamente l’impresa di ogni suo bene e lasciarla fallire, naturalmente evitando di infrangere le leggi in materia. I professionisti delle Private Equities sono addestratissimi anche sotto questo profilo.
Sono diventati molto grandi alcuni Pe. Mitt Romney è arrivato persino molto vicino alla Casa Bianca (sconfitto nel 2012 solo da Obama). Ci sono Pe grandi quanto una grande banca (leggasi l’articolo di Bloomberg) e… ne sanno una più del diavolo per spremere soldi da qualunque cosa finisca nel loro ingranaggio, e così sono decine di altre.
Sarebbe ora che la politica mettesse fine a questo sciacallaggio. Gli speculatori sono molto bravi, ma solo perché i politici, che ne hanno diretta convenienza grazie alle lobby, lasciano fare.