Potrebbe aprirsi come ennesimo tavolo nazionale di crisi al ministero dello Sviluppo – 149 quelli a fine novembre, il 68,5% da più di tre anni – il caso della Berloni di Pesaro. Giovedì scorso il cda ha votato a maggioranza la liquidazione volontaria dell’azienda, lasciando nell’incertezza il destino di 85 lavoratori e dell’indotto del distretto del mobile pesarese. Il marchio di cucine, erede della storica tradizione di Berloni spa nata a Pesaro negli anni ’60, dal 2014 è passato di mano ad una NewCo a maggioranza asiatica: 99% la quota dei tre investitori di Taiwan e solo l’1% in mano alla famiglia Berloni.
“La richiesta di convocazione del Tavolo al Mise è giunta oggi da parte dei sindacati”, annuncia la marchigiana Alessia Morani, sottosegretaria al Ministero dello Sviluppo, che mercoledì aveva rivelato l’interessamento di un potenziale compratore. Italiano, aveva tenuto a sottolineare, viste le preoccupazioni di tutti per l’acquisto del solo marchio e la possibile delocalizzazione della produzione. “Atto dovuto per tutelare i lavoratori nell’attesa che si palesi il compratore di cui si parla – commenta Giuseppe Lograno, segretario provinciale Fillea Cgil, che con Filca Cisl ha firmato il documento – Vogliamo capire che intenzioni ha e quando arriverà, perché qui non c’è più tempo”.
Non c’è più tempo anche perché la situazione appare in realtà molto più delicata di come sembrava delinearsi in principio, quando quella di Berloni era una “crisi inaspettata” e un “fulmine a ciel sereno”, visti i fatturati in crescita anno su anno: 15,75 milioni al 2018, in aumento del 22% rispetto ai 12,92 milioni dell’anno precedente. Ma i bilanci confermano, a mandate di finanziamenti e versamenti in conto capitale da oltre 15 milioni di euro complessivi, la continua immissione di nuovi fondi da parte dei soci taiwanesi – da oggi non più disponibili a sborsare un euro, si dice – mentre, già a fine 2018, la liquidità disponibile risulta di poco sopra i 3mila euro.
È così che il liquidatore Alessandro Meloncelli, in attesa della nomina formale, ha intanto incontrato a inizio settimana istituzioni, sindacati e lavoratori, riferendo della necessità di liquidità immediata. Auspicato il canale del credito bancario, forse possibile con un istituto locale, aveva lui stesso aperto lo spiraglio di un potenziale acquirente, che sarebbe però dovuto intervenire nel giro di poco assumendo impegni economici concreti. Un attore, che si vociferava straniero, ma interessato al mantenimento del made in Italy, al limite con una delocalizzazione produttiva parziale.
Intanto, nessuna lettera di licenziamento è giunta. I dipendenti hanno compostamente manifestato il proprio sconcerto ai cancelli proclamando sciopero per le giornate di venerdì e lunedì, ma da martedì sono rientrati al lavoro, “su richiesta del liquidatore che ha usato la leva della liquidità, per portare avanti alcune commesse” riferiscono dalla Cgil provinciale. Chi quella fabbrica la vive, parla di una sessantina di nuovi showroom in apertura e di alcuni contract esteri da centinaia di cucine, di un nuovo assunto da tre mesi appena e di prove su prototipi per nuovi materiali. Tornati al lavoro per far ripartire consegne e forniture, a rischio i loro stessi stipendi e tredicesime, c’è chi si preoccupa – “con il materiale disponibile, abbiamo appena un giorno di lavoro” – mentre alcuni di loro, la maggior parte in quello stabilimento anche da trent’anni, ricordano ancora i segni della passata crisi: “Attendiamo ancora diverse mensilità e i premi produzione dal precedente concordato”.