Se un quotidiano sportivo, alla vigilia di un ipotetico incontro tra Juventus e Roma, magari a ridosso delle festività natalizie, pubblicasse sul paginone una foto che vede Cristiano Ronaldo e Lorenzo Pellegrini ai lati opposti dell’immagine, nessuno ci vedrebbe niente di male, ci troveremmo di fronte a una gestione grafica quasi scontata del testo. Se però il titolo di questo pezzo fosse ‘Bianco Natale’, più di un lettore si gratterebbe la testa, probabilmente criticherebbe il poco sforzo di fantasia o faticherebbe a capire il nesso tra i due campioni e la ricorrenza di turno, al di là dell’avvicinarsi della data rossa sul calendario. Nessuno ci vedrebbe niente di peculiare, e in generale non si troverebbe l’associazione rilevante. Questo perché Cristiano Ronaldo e Lorenzo Pellegrini, proprio come la stragrande maggioranza dei lettori dei giornali sportivi in Italia, sono entrambi maschi e bianchi, ovvero appartenenti a identità di genere ed etnie dominanti nel loro territorio di attività e influenza. Non fa notizia dire di due corpi bianchi che sono bianchi: è ridondante e scontato, perché è bianca anche la stragrande maggioranza del pubblico a cui il giornale si rivolge.
Se invece su un quotidiano si confrontano due atleti del calibro internazionale di Romelu Lukaku e Chris Smalling apponendo al pezzo il titolo ‘Black Friday’ – che piaccia o meno, e a prescindere dal contenuto dell’articolo così come dalle intenzioni dell’autore – si sta sottolineando consapevolmente la presenza di una minoranza etnica al centro di una questione sportiva, mettendo testualmente in evidenza non la loro contrapposizione atletica, ma il colore della loro pelle. Ne consegue dunque che si sta mercificando una divergenza dal modello etnico dominante, col pretesto del discorso sull’agone sportivo.
Il fatto che sia ancora necessario chiarire il perché un titolo del genere possa essere considerato foriero di considerazioni razziste è il sintomo che c’è qualcosa, a proposito del discorso discriminatorio, che proprio non riesce a entrare nella testa di una certa maggioranza bianca e privilegiata, per di più in Paesi che, il più delle volte, non hanno evidentemente esorcizzato ancora tutti gli spettri del loro passato colonialista.
Il discorso discriminatorio, o ciò che più comunemente viene ascritto al refugium peccatorum del termine razzismo, non nasce e muore in un gesto discriminatorio, non si esaurisce in un’azione che prevede il danno a un essere umano appartenente a un’etnia non dominante su un dato territorio, ma vibra, prospera e si propaga principalmente in tutti quei pensieri che prevedono il riconoscimento di una differenza anche terminologica tra due etnie. Non esistono atti razzisti che siano nati da pensieri non razzisti, sono semmai gli ultimi a generare i primi.
Lukaku e Smalling, con buona pace dei titolisti di certi giornali, non sono due atleti neri che si sono schierati contro il razzismo, ma due atleti – punto – che si sono schierati contro il razzismo. Sottolineare il fatto che la loro pelle sia nera, magari associandolo a una ricorrenza commerciale che strizza l’occhio al consumatore, se non è un gesto razzista nelle intenzioni, è comunque un gesto che nasce da un pensiero contingentemente razzista. Lo è perché viene da titolisti bianchi residenti in un Paese a maggioranza bianca. Ma soprattutto lo è perché offende chi non si riconosce in questa maggioranza, in quanto fonte di privilegio.
Questo può suonare come un discorso censorio, moralista, vagamente repressivo, in realtà la questione è molto più semplice di così: basta chiedere ai diretti interessati cosa pensano del titolo che li riguarda. Entrambi, dai loro social, hanno reagito stigmatizzando l’episodio e parlando esplicitamente di “titolo stupido che alimenta negatività e razzismo” e di gesto “sbagliato e altamente insensibile”.
— R.Lukaku Bolingoli9 (@RomeluLukaku9) December 5, 2019
Non è necessario compiere gesti razzisti per avere pensieri razzisti, è necessario mettere in discussione ciò che pensiamo non lo sia, quando chi si sente discriminato ci mette a parte dei suoi sentimenti. È necessario assumersi la responsabilità delle proprie parole ed essere pronti ad ammettere di aver sbagliato, di aver sottovalutato la questione, di non essere ancora pienamente consapevoli di ciò che il razzismo implica. È come se ci fosse un errore di prospettiva, come se si pensasse che la direzionalità di un gesto o pensiero razzista debba essere necessariamente attiva, e cioè diretta da chi lo compie a chi lo subisce. Non è così, il più delle volte è una questione allo specchio, generata dalla dignità lesa di chi il gesto, così come il pensiero, lo subisce. È la prospettiva a essere distorta, e lo è perché gran parte delle persone che si ritrovano a sminuire l’episodio hanno raramente subito del razzismo a causa della loro etnia di riferimento. Banalmente, non sanno del tutto di cosa si parla.
Una reazione del genere ricorda i tempi (ma sono davvero finiti?) in cui mediaticamente si accusava Mario Balotelli di non assumere comportamenti atti a farsi accettare, manifestamente desiderosi di guadagnarsi l’integrazione. Anche i più distratti ammetteranno che un pensiero del genere prevede che l’essere umano Mario Balotelli partisse da una condizione di svantaggio nel Paese in cui è nato e vive, quasi come se avesse un qualcosa da farsi perdonare: il colore della pelle.
Il titolo che riguarda Smalling e Lukaku non sarà mosso dallo stesso sentimento, ma nasce dallo stesso pensiero sbilanciato, decentrato, superficiale e privilegiato.
Poi si può rispondere che le battaglie razziste sono altra cosa, ben più seria di un titolo di giornale. Molto bene, in quel caso avremmo il direttore, bianco, di una testata sportiva – uno che difficilmente avrà subito discriminazioni per il colore della propria pelle -, che pontifica sulla serietà della questione discriminatoria all’indirizzo di due atleti appartenenti a etnie di minoranza sul suo territorio di nascita. Se non si riesce a trovare paradossale una situazione del genere, la strada verso la consapevolezza è ancora faticosamente lunga.