Il caso Castrucci, oltre a sollevare le annosissime questioni sulla libertà della ricerca scientifica, sul diritto a esprimere la propria opinione fuori dal contesto lavorativo, sulla non perseguibilità dei “reati d’opinione”, sulla inopportunità di stabilire verità “di Stato”, ha scatenato anche una questione teorica non da poco.
Emanuele Castrucci è infatti studioso di Carl Schmitt, il sommo giurista del Führer, di cui ha tradotto forse l’opus magnum, il Nomos der Erde, raffinato affresco – disseminato di trappole – della genesi e dell’evoluzione del diritto internazionale. Perché Schmitt è autore potente e seducente, ma con un dettaglio: un dettaglio nazi (come recita il titolo di un libretto di Yves Charles Zarka, filosofo francese della politica).
Schmitt era stato iscritto al Partito Nazionalsocialista (tessera n. 2.098.860) ed era diventato presidente dei giuristi nazionalsocialisti. Ma fin qui siamo ancora alla dimensione biografica: Schmitt è stato nazista, e non ci piove. Si trattava della mossa opportunistica di un carrierista? No: tra i suoi tanti segni di adesione sincera, 47 articoli popolari e accademici a sostegno del regime, scritti in tre anni, dal ’33 al ’36.
Era un dettaglio biografico? Neanche: per Schmitt l’adesione alle idee del regime era “originaria”. Originaria perché la sua adesione non è un accidente rispetto a un certo modo di intendere il politico. Anche Norberto Bobbio fu fascista, ma si può dire che il suo pensiero sia mai stato espressione del fascismo?
Dunque, è perché Castrucci studia Schmitt che le sue opinioni sono antisemite? E che bisogna fare con Carl Schmitt? Domanda non da poco, questa seconda, dal momento che il giurista di Plettenberg ha avuto (e ha tuttora) una notevolissima influenza in vari campi, dal diritto costituzionale alla teoria politica, dal diritto internazionale alla riflessione teologica sul potere. E quest’influenza egli l’ha esercitata sia sul sottobosco destroide, ma anche su molti influenti intellettuali di sinistra.
Quando uscì il libro di Zarka, il mite Franco Volpi, curatore editoriale del Nomos, scrisse furente su Repubblica “Bisogna bruciare Carl Schmitt?”. Domanda capziosa, che cerca di rovesciare la questione (dal momento che nessuno vuol bruciare Schmitt o i suoi libri, né quelli di Martin Heidegger): i “veri fascisti” sarebbero gli altri, i censori.
Il 17 maggio del 1933, Schmitt annotava nel suo diario: Verbrennung der Schandbücher, il rogo dei libri della vergogna. Nello stesso anno scriveva che l’espulsione di persone come Albert Einstein allontanava soggetti alieni rispetto al Volk. Chiedeva il bando sistematico dei libri dei “giuristi ebrei” dalle biblioteche tedesche. Volpi consigliava di riservare al libro di Zarka lo stesso trattamento che questi, secondo lui, avrebbe voluto riservare ai libri di Schmitt: caveat lector.
Dunque non dobbiamo leggerlo? E Castrucci ha scritto quelle cose perché studioso di Schmitt? La risposta è la seguente: non ci sono limiti (né culturali, tanto meno “legali”) agli oggetti di studio, a patto che non li si trasformi in feticci e non li si ritenga il viatico alla verità.
In Italia, i comunisti pentiti discettavano di “deiezione del soggetto” e si innamoravano della triade nera Heidegger-Jünger-Schmitt, forse perché al loro orecchio non tedesco – è la tesi caustica di Franz Haas su Belfagor – un certo lessico suonava meno compromesso di quanto suonasse agli ipercritici francofortesi.
Aveva invece ragione Jürgen Habermas, che di giudizi ingenerosi ne ha dati tanti e che su alcune cose ha avuto persino torto rispetto a Schmitt (penso all’idea di “guerra umanitaria”). Perché quando si tratta di prendere posizione per l’Illuminismo e il progresso, non ci sono ambiguità. Habermas scrisse che Schmitt non era altro che un clerico-fascista.
Scambiare la critica ai diritti e al parlamentarismo, la teoria della decisione, l’endiadi amico-nemico per diagnosi e la teoria dei Großraume per anticipazione del pluralismo neo-regionalistico, operare un democratic washing sui suoi scritti ha portato molti a fidarsi del San Cassiano tedesco, a pendere dalle sue labbra, percorsi dal brivido del “maledetto”. A pensare che si potesse sopportare il male come freno a un male più grande, l’Anticristo (e se volete sapere di cosa sto parlando ascoltate il monologo dell’Andreotti del Divo).
Castrucci è stato meno furbo di Schmitt, che persa la guerra smise con l’antisemitismo pubblico e lo riservò semmai ai diari. Versato com’era nei cascami esoterici, oggi su Twitter avrebbe semmai fatto qualche velata allusione.