Ansiosi, in preda all’incertezza, impauriti più di ogni altra cosa da lavoro precario e disoccupazione, indifferenti alla politica. Ma anche pieni di micro-passioni personali, tra cui lo sport, la compagnia di animali, la cultura. E in cerca di nuovi legami comunitari, fosse anche la partecipazione a una sagra, così come – comunque – desiderosi di futuro. Così il 53esimo “Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese”, a cura dell’Istituto di ricerca socio-economica Censis e presentato stamane Roma, descrive gli italiani e la società italiana del 2019. Dove la spaccatura con la politica è sempre più radicale e la ricerca di riscatto viene dalle soddisfazioni del privato, ma anche dal volontariato, in crescita, e dal nuovo attivismo ambientale.
Liquidità, “nero”, psicofarmaci: strategie individuali di resistenza
Non proprio radicalmente pessimisti (lo è il 17%), ma neanche ottimisti (14%): gli italiani guardano al futuro soprattutto con grande incertezza (69%). Alle spalle hanno un lavoro faticoso: hanno dovuto metabolizzare la rinuncia ai due pilastri storici della sicurezza, il mattone e i Bot, così come la crisi del sistema protettivo del welfare e la rottura dell’ascensore sociale. Che infatti la maggioranza degli italiani – il 69% – ritiene bloccato. Se la ricchezza immobiliare decresce (del 12,6%) e i rendimenti dei Bot sono microscopici, non sono all’orizzonte nuovi sentieri di sicurezza e sviluppo. E allora gli italiani, scrive l’Istituto di ricerca, si difendono da soli, attivando processi di difesa spontanei, in una sorta di “resilienza opportunistica” che va da uno stretto controllo dei consumi, all’accumulo di cash – non si ferma la corsa alla liquidità – al “nero” funzionale alla sopravvivenza. Un altro aiuto consistente viene, ma il dato non è positivo, dall’utilizzo di sedativi e ansiolitici, per combattere sia lo stress (è stressato il 74% degli italiani) che una ben più grave sindrome da stress post-traumatico: il consumo di psicofarmaci è aumentato in tre anni del 26%, e ne fanno uso ben 4,4 milioni di persone. È venuta meno la fiducia negli altri (75%), ma è vero anche che il 49% degli italiani ha subito nell’ultimo anno una prepotenza in luogo pubblico e il 44% si sente insicuro nelle strade che frequenta.
L’incubo del lavoro e la crisi demografica: boom di espatri
Il vero, grande, problema degli italiani resta il lavoro: è preoccupato il 44% (più del doppio della media europea), due volte più degli immigrati (22%) e cinque-sei volte della crisi climatica (8%). L’istituto si focalizza su un paradosso: rispetto al 2017, gli occupati aumentano. Ma a crescere sono solamente, di 1,2 milioni, quelli a tempo parziale, tanto che tra il 2007 e il 2018 il part time è aumentato del 38%, soprattutto quello involontario, praticamente raddoppiato rispetto al 2007 e ancor di più (71,6%) tra i giovani. Calano dunque le ore complessive di lavoro (2,3 miliardi rispetto al 2007) e anche le retribuzioni (del 3,8%). Ci cono quasi 3 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 9 euro all’ora, specie tra giovani e operai. E 2 milioni di lavoratori dipendenti che possono contare solo su 79 giornate retribuite all’anno. I giovani sono sempre di meno eppure non trovano lavoro. Si calcola che tra cent’anni gli under 35 saranno il 31,2% e gli over 64 il 31,6% (nel 1959 erano il 9,1%). Dal 2015 si contano 436.066 cittadini in meno. Calano le nascite, sia tra gli italiani che tra gli stranieri, e aumentano gli espatri, con numeri impressionanti: più 400.000 cittadini tra i 18 e i 39 hanno lasciato l’Italia in un decennio. La diminuzione è consistente soprattutto nel Meridione, mentre ci sono 21 province su 107 che non hanno perso popolazione: quasi tutte tra Lombardia e Nord-Est (in particolare valle dell’Adige e l’asse della via Emilia), con il picco di Milano, mentre Roma crolla anche nel numero di residenti stranieri. L’anomalia demografica, notano gli esperti, metterà a dura prova i sistemi sociali, visto l’aumento di malati cronici e non autosufficienti.
La politica in tv? Come una fiction. Piace l’Europa
Meno di un italiano su 5 parla di politica quando si vede, il 76% non ha fiducia nei partiti (81% tra gli operai e l’89% tra i disoccupati). La sfiducia genera tuttavia un’attesa messianica verso l’uomo forte, che fa presa oggi sul 48% degli italiani (ma sale al 62% tra gli operai). Le persone guardano molta politica in tv, ma “come se fosse una fiction”, tanto che nelle urne l’astensione continua a crescere, dal 9,6% del 1958 al 29,4% nel 2018. E paradossalmente il 90% dei telespettatori non vorrebbero vedere sullo schermo politici, ma scienziati, medici, esperti (73,1%), ma anche – oltre a attori e cantanti – anche poeti, scrittori e filosofi (43,5%). Scarsa la fiducia anche nella Pubblica Amministrazione (29% contro 51% della media europea), anche per i debiti non saldati verso le imprese. Se proprio si dovesse trovare un’istituzione nella quale gli italiani, tutto sommato, credono è l’Europa, con la maggioranza contraria al ritorno alla lira o all’uscita dall’Unione e uno su due contrario ai dazi. D’altronde, oggi sono 2.107.359 gli italiani che vivono nei paesi della Ue, aumentati del 12,2% negli ultimi tre anni.
Il trionfo del privato: sport, volontariato e cultura
Le relazioni di senso, per gli italiani, non sono più nel pubblico né, neanche, nel proprio lavoro. Oggi la vita “vera” si trova soprattutto nelle 4 ore e 54 minuti di tempo libero al giorno, di cui gli italiani sono soddisfatti. Cresce non a caso la spesa per attività ricreative e culturali (71,5 miliardi di euro), cresce il volontariato (più 19,7% negli ultimi dieci anni), cresce lo sport: sono ben 20,7 milioni le persone che praticano attività sportive. Importante nella ricerca di senso sono sia la cura di animali – ci sono oltre 7 milioni di cani e di gatti (il 38,8% delle famiglie ne possiede uno) – ma anche il recupero di pratiche che affondano nell’antica dimensione comunitaria, come le sagre. Nonostante il rifugio nel privato, sia pure solidale, resta vivo, nota il Censis, il problema di un classe dirigente che tenga insieme la collettività e individui la direzione in cui muoversi. Magari – nel Paese con un sistema formativo che non funziona e dove ci sono 13 milioni di analfabeti funzionali – fatta da professionisti, di cui gli italiani si fidano (medici come giornalisti). O di politici che pensino al futuro piuttosto che al consenso.
Il Paese delle riforme mancate
“Incompiuto”: così il Rapporto definisce il decennio che si chiude. E l’accusa è soprattutto alla politica, incapace di riforme strutturali sempre annunciate “ma mai concretamente avviate”, si legge nelle Considerazioni generali. Dalla scuola alla giustizia, dalla sanità alle infrastrutture o ai servizi idrici, lo scenario “è affollato di non decisioni”. Nonostante ciò, esiste ancora la possibilità di rinnovamento e nuovo sviluppo, anche perché “l’adeguamento verso il basso non può proseguire senza limiti”. Ci sono, d’altronde, motivi di relativa speranza: il nostro sistema produttivo manufatturiero e industriale, il consolidamento strutturale di alcune aree geografiche, la nuova sensibilità ai problemi del clima e della tutela di ambiente e del territorio, di nuovo la dimensione europea. E poi, anche se in misura minore, la fitta rete di incubatori e acceleratori di imprese innovative, i festival e gli eventi culturali di ogni genere, segmenti produttivi ad alta tecnologia o sapienza artigianale dove l’Italia ha un primato. Eppure non si può immaginare che questi ambiti diventino le basi per un ritorno a una dimensione sociale e collettiva. I nuovi attori sociali potrebbero aprire una fase negoziale con la politica. Ma gli esiti non sono ancora noti. L’interrogativo “su come si possano dare tempi, luoghi e strumenti di bilanciamento tra risposte ai bisogni di base e nuova alimentazione delle ambizioni individuali” resta ancora aperto.