L’andatura caracollante. Il corpo enorme e grasso. Il viso completamente ricoperto da enormi protesi che gli gonfiano gote, pappagorgia e fronte. Calvo, pesante, irriconoscibile. Russell Crowe come non lo avete mai visto lo trovate in The Loudest voice, la miniserie in sette puntate in onda su Sky. Un solidissimo e travolgente biopic su Roger Ailes, l’ex numero uno di Fox News che prima di venire travolto dagli scandali sessuali del #MeToo nel 1996 rivoluzionò il mondo dell’informazione statunitense.
Ailes/Crowe è un tizio che gioca sporco. Consulente di ben tre presidenti repubblicani, vicinissimo a uomini del Congresso, ammirato ideatore e produttore di trasmissioni tv degli anni ottanta venne assunto da Rupert Murdoch per sconvolgere il mercato del’informazione tv. Telegiornale a manetta, in diretta per ore, con il rullo delle notizie che scorre rapido sotto le immagini (“come nei risultati sportivi”). Ma soprattutto ostentatamente di parte. Great America Again dice Trump oggi. Uno slogan che avrebbe potuto affermare Ailes vent’anni fa. Metà della popolazione è conservatrice? Il mondo dell’informazione è in mano all’elite liberal (non “liberale”, ditelo ai traduttori dell’edizione italiana, accidenti!)? E Ailes che fa? Spinge perché la fidelizzazione del 50% dei conservatori rotoli nel proprio paniere Fox. “Che loro si sbranino, noi conteremo per l’altra metà”. Che dire? In termini di rendita economica un genio. In termini politici un tantinello spregiudicato. Un po’ come l’impianto di regia e messa in scena della serie. Un continuo seguire con angolazioni conturbanti, dettagli di scarpe nella camminata, riunioni notturne e violente nella “war room”, primi piani introspettivi, la straripante figura di Ailes tra casa e lavoro. Il tutto in mezzo ad un’atmosfera di spasmodica attesa dell’evento giornalistico possibile.
Ailes è ingombrante e definitivo, dittatoriale e, non dimentichiamolo, anche parecchio zozzo. Gli ideatori della serie, almeno nei primi due episodi, la toccano piano. Perché a toccare, anzi palpare, future giornaliste da inserire nell’arrembante Fox News, è lo stesso Roger, ma solo dopo 30 minuti di primo episodio e nel secondo, a memoria, nemmeno una volta. Supponiamo non per omettere episodi significativi di molestie che, per la cronaca, lo porteranno a lasciare l’incarico Fox nel 2016 (nel 2017 morirà a seguito dell’aggravarsi dell’emofilia di cui soffriva da decenni), ma bensì per comporre un racconto tesissimo e antiretorico sulla stanza dei bottoni dell’informazione repubblicana statunitense, proprio per coglierla nella sua essenza di lotta estrema in una giungla. Oltretutto per confermare che la traccia dell’infamia è addosso a Ailes fin da subito ma non è il centro del discorso, proprio appena dopo i titoli di testa, il protagonista si reca dal ceo della General Electric, che finanziava la NBC, ricevendo un lauto benservito con buonauscita proprio per aver ricevuto accuse di molestie dalle dipendenti. Si sorvola un po’, ma qua e là, come un supplizio tantalico, i dettagli fioccano implacabili. Il dito in bocca alla giornalista da provinare, una mano malandrina che sfiora fianchi, seni e chiappe. Ailes cadrà nella polvere ma prima sarà inarrestabile.
Nel secondo episodio, proprio di fronte agli attentati dell’11 settembre 2001, sotterrerà ogni possibile fragilità personale di fronte alla guerra al terrorismo che appoggerà totalmente dando addirittura lui ordini per telefono al vicepresidente Cheney. La matrice visiva, poi, di questo spazio/set televisivo è contrassegnata da quel segnale offuscato e da quel fruscio tipico di alcuni nastri magnetici da mettere in onda ancora con il carrellone del videoregistratore e il tasto “eject”. Per non parlare di un’altra soluzione di regia con l’immagine che viene veicolata dai piccoli televisorini dell’epoca che riproducono e moltiplicano il segnale Fox fino a comporre un’infinita bandiera a stelle e strisce. Produce una gallina dalle uova d’oro cinematografica come la Blumhouse di Jason Blum. Tra i registi dei primi sette episodi ci sono anche Scott Z. Burns e Stephen Frears. Crowe, infine, è mastodontico in questo indossare i panni abnormi di Ailes. Il trucco, un po’ come il Christian Bale/Cheney di Vice o l’Andreotti/Servillo de Il Divo, è pesante, ma l’attore australiano riesce a dare dinamicità e possanza al personaggio, riuscendo a farci scorgere sotto quella gomma una gamma infinita di espressioni facciali da vera star.