Quando nel 1857 la principessa Sissi arrivò al Teatro Alla Scala, in visita ufficiale con l’arciduca Francesco Giuseppe, fu incuriosita dai volti che la fissavano nei palchetti. Che gente bizzarra, pensò. Poco aristocratica, in effetti: i nobili milanesi avevano disertato la serata alla Scala e mandato al loro posto i domestici, in segno di protesta contro gli austriaci. Nei palchi del teatro milanese spesso la musica si è intrecciata con la storia, con la politica e con il pettegolezzo. Oggi una mostra ripercorre un pezzo di questa storia italiana vista da un particolare e privilegiato osservatorio: “Nei palchi della Scala – Storie milanesi” a cura di Pier Luigi Pizzi, con la consulenza scientifica di Franco Pulcini. La mostra è visitabile fino al 30 maggio 2020 nel museo del teatro, mentre l’archivio digitale è navigabile online dal 7 dicembre. Sbirciare tra i proprietari dei palchi è un modo per capire le dinamiche di potere dell’élite milanese: aristocratici, borghesi, letterati e patrioti. Tutti riuniti nei 155 affacci sul palco, veri e propri salotti in cui si mangiava, si fumava, si incontravano le amanti, si faceva gossip. Finestre per guardare, ma soprattutto per farsi guardare.
Un palco alla Scala, secondo Stendhal, costava l’equivalente di un appartamento a Parigi: ma era uno status-symbol necessario per far parte di quelli che contano, come il palazzo in centro o la villa sul lago. Nel 1776, dopo l’incendio del vecchio Teatro Regio Ducale, si misero in vendita i palchi per finanziare la costruzione del nuovo teatro: l’asta raggiunse cifre record, fino a quasi dieci volte di più del prezzo normale. Andarono a ruba. Nel 1778 il nuovo teatro aprì i battenti: nei 155 palchetti era riunita l’élite cittadina, tutti i discendenti delle grandi famiglie lombarde, i Trivulzio, i Litta, i Belgioioso, i Visconti. I costosi affacci erano a tutti gli effetti beni immobiliari che potevano essere venduti, comprati, trasmessi in eredità o affittati. Affittuari celebri furono Pietro Verri e Cesare Beccaria, per dire.
Per i signori il palco era un secondo salotto: i palchettisti erano liberi di arredarli a proprio gusto, a patto di farsi carico dell’illuminazione e del riscaldamento. E come in ogni salotto che si rispetti, si faceva a gara per avere gli ospiti più illustri: Giuseppe Parini, Ugo Foscolo, che ci portava le amanti (in più di un’occasione i palchetti si sono rivelati ottime alcove) e Alessandro Manzoni, che buttava un occhio al palco e uno alle carte, da incallito giocatore.
Per un secolo e mezzo, la geografia dei palchi è stata lo specchio dei rapporti di potere, un osservatorio privilegiato sui cambiamenti storici: il patriziato lombardo, la nobiltà asburgica, poi Napoleone, che fece togliere gli stemmi e il palco reale, la Restaurazione e l’Unità d’Italia. Poi arrivarono imprenditori, banchieri, notai. Insomma, la borghesia. Se all’inaugurazione del teatro la quasi totalità dei palchi era occupata da nobili (123 su 155) nel 1920, anno della nascita dell’Ente Autonomo della Scala, i nobili erano solo 79, sorpassati dai 90 di proprietà borghese. Ma a quel punto era finita la stagione dei palchettisti, sostituiti dal moderno sistema degli abbonamenti. Una mappa digitale, dal 7 dicembre consultabile online, permette di tracciare l’avvicendarsi dei proprietari, disegnando uno spaccato economico e sociale di Milano: scrittori e patrioti, ecclesiastici e militari, musicisti e funzionari.
La storia dei palchi racconta di un mondo molto diverso dal nostro: il teatro era il centro della vita cittadina, luogo di relazioni sociali, prima che di cultura. Stendhal lo definì “il salotto che riuniva tutti i salotti di Milano”: ci si incontrava, si stringevano mani, si concludevano affari. Si guardava e ci si lasciava guardare. Un luogo caldo, palpitante di vita e di persone: niente a che vedere con la polverosa idea che abbiamo oggi dei teatri, luoghi grigi dove stare seduti in religioso silenzio. Nell’Ottocento nei palchi si fumava, si beveva, si giocava d’azzardo e si incontravano le amanti: era al tempo stesso piazza e boudoir. “All’infuori della Scala non vi è salvezza – scriveva il compositore Franz Liszt nel 1838 – questo è l’unico luogo di riunione, il vero centro di gravità della società milanese”. I palchi erano il regno incontrastato delle dame, ricorda il curatore della mostra Pier Luigi Pizzi: quando gli uomini si defilavano per andare a giocare nel foyer, le signore restavano nei palchi, ricevevano visite, chiacchieravano e tessevano trame. E soprattutto, si lasciavano ammirare, sfoggiando abiti e gioielli. La moglie di Giuseppe Verdi una sera perse una spilla nel palchetto: il compositore mandò un bigliettino alla direzione supplicando di cercarlo.
Alla Scala, cultura e mondanità sono sempre andate a braccetto: da qui sono passate la regina Elisabetta e Lady D, Grace Kelly ed Evita Peron, Elizabeth Taylor e Valentina Cortese. Loro e i loro abiti, alcuni dei quali si possono ammirare nella mostra: creazioni di Capucci, Valentino, Mila Schoen, Chanel. Non c’era (e forse non c’è) miglior vetrina della serata inaugurale, la Prima del 7 dicembre. Se vi capitasse di assistere (la diretta televisiva in questo aiuta) tra un atto e l’altro date un’occhiata in su, agli ordini di palchi. Oggi come allora, le cose più divertenti succedono lì.