Il presidente francese Emmanuel Macron ha convocato in Francia i capi di Stato del Sahel coinvolti nell’operazione militare antiterrorista Barkhane. Dopo la morte accidentale di 13 militari francesi e a monte di un crescente sentimento antifrancese, si tratta di fare il punto sulla ‘fedeltà’ di questi Paesi all’intervento occidentale armato.
Le cancellerie occidentali dipingono in rosso il Sahel identificando così questa zona come altamente sconsigliata se non proibita per turisti e incauti viaggiatori (meno però per le imprese multinazionali che ivi operano). Fioccano dappertutto milioni di euro in aiuti per sviluppare, stabilizzare, formare, contribuire alla democrazia e al buon governo delle istituzioni. L’Occidente non è comunque il solo donatore: la lista dei benefattori si è nel frattempo allungata a piacimento. La Cina, il Giappone, l’India, la Russia, la Turchia, il Marocco, i Paesi del Golfo e persino alcuni Paesi latinoamericani accorrono al capezzale del gran malato del momento. Ognuno col bagaglio e la lista delle proprie priorità, esattamente come in Libia o altrove. Ad ognuno il suo, così si interpretava una volta la giustizia. Mai così vero come nel Sahel.
La gestione proposta e imposta delle frontiere, che vede in prima linea l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), braccio falsamente umanitario dell’Europa, è uno dei tasselli della strategia di controllo della mobilità del capitalismo globalizzato. Come ben ricorda lo specialista e ricercatore William Robinson, dell’università di Santa Barbara in California, il sistema abbisogna di mano d’opera docile e sottomessa, cioè di nuovi schiavi, per perpetuarsi e riprodursi senza fine. L’occupazione e ridefinizione della funzione delle frontiere, luoghi di transito vitale nel Sahel come altrove, è data in subappalto in cambio di soldi, ai Paesi interessati all’operazione. Che poi tutto ciò sia non solo giustificato ma addirittura richiesto per lottare contro il terrorismo, il contrabbando transfrontaliero e le migrazioni ‘irregolari’ non è che la traduzione sul terreno della ricolonizzazione del territorio saheliano. Il Discorso sulla servitù volontaria scritto da Etienne de la Boétie verso il 1549 contiene alcune verità che continuano a rivelarsi utili per interpretare la nostra attualità. Il tiranno, per continuare ad essere tale, ha bisogno della felice e libera sottomissione dei sudditi. Passerà come benefattore o comunque degno di essere obbedito, riverito e ringraziato per la dittatura.
Qualche giorno fa è stato siglato un accordo tra il governo del Niger e gli Stati Uniti che prevede il finanziamento di un progetto di collaborazione tra le unità militari e la giustizia per lottare meglio contro il terrorismo. Ciò si materializzerà, una volta di più, nella formazione delle forze di difesa nigerine che lottano ogni giorno sul fronte del terrorismo. Secondo l’ambasciatore americano nel Niger, Eric P. Whitaker, si tratta di “introdurre le tecniche efficaci per interrogare i sospetti e testimoni con lo scopo di costituire documenti credibili per le procedure giudiziarie conseguenti dei terroristi”. Si capisce bene ciò sta dietro questo linguaggio neutrale e compassato dell’ambasciatore degli Stati Uniti. Si tratta di qualcosa del quale da sempre questo Paese, che persiste a credere in un suo destino manifesto di sceriffo globale, è un esperto riconosciuto ancorché non unico a praticare. Si tratta infatti della tortura che traduce in modo diretto e non politicamente corretto, “le tecniche efficaci per interrogare i sospetti”. Chi non ha la memoria corta ricorda quanto accadde coi primi abitanti indigeni dell’America, nel Vietnam, nella prigione militare di Abu Ghraib dove le foto testimoniano le forme più inumani di torture, oppure la prigione della base militare di Guantanamo nell’isola di Cuba dove per anni sono stati e sono detenuti sospetti terroristi dell’Afghanistan. Non parliamo poi delle presenze militari e delle scuole di formazioni per colpi di Stato.
Ma nulla di tutto ciò sarebbe veramente efficace e in grado di assicurare la recidiva neocoloniale se il sistema non avesse a disposizione le agenzie per gli aiuti umanitari. Sono queste istituzioni onusiane e le ong che, assieme all’impianto della moneta controllata, all’economia espropriata, all’agricoltura svilita e alla sovranità limitata, costituiscono i dispositivi di controllo e riorientamento coloniale del Sahel. La nostra certezza di vittoria feriale si basa, com’è noto, sulla capacità di resilienza illimitata della sabbia.
Niamey, dicembre 2019