Non è un capello ma una chioma di cavallo. C’è un mistero che attanaglia migliaia e migliaia di persone, puntualmente sveglie a seguire TikiTaka “quando un giorno – vista l’ora – è appena finito e un nuovo giorno è appena cominciato”. Non parliamo del camiciaio pazzo di Antonio Cassano o del sarto che disegna strani rigonfiamenti – alla Andrea Roncato di Acapulco, per intenderci – nei jeans di Bobo Vieri. L’inspiegabile arcano riguarda l’ex giacchetta nera più abbronzata del pianeta. L’elegantissimo, raffinatissimo, leccatissimo Graziano Cesari. Anzi, la strana chioma che da tempo aleggia sul suo capo.
Già, perché il dilemma tricologico, tra un ingrandimento di un fallo di mano alla Biscardi e una rilettura della Var che sacrifica le “piccole” come in un tempio Maya (dio, quanto è deboluccio Piatek, basta sfiorarlo che rotola a terra come un gomitolo…, ma per Cesari è rigorissimo), Cesari mette in mostra da diverso tempo uno strano oggetto alieno sopra la testa a chiudere la solita impeccabile mise da alto funzionario bancario. Orologiao-ao-ao di un certo peso e costo a dondolare fiero sul polso, fazzoletto appena visibile nel taschino che nemmeno Raimondo Vianello all’epoca di Pressing, camicia aperta nel colletto con disinvoltura alla DiCaprio, completo frescolana blu che in confronto il gessato alla Al Capone di Franco Ordine è roba da club della caccia, Cesari è un monumento all’eleganza su cui si sono specchiati perfino dalla Settimana della Moda di Milano.
Eppure c’è uno strano affare che staziona poco sopra la fronte. Una roba mai vista che deve essere atterrata recentemente a Malpensa. In molti ricordano l’ex fischietto parmigiano corricchiare con amabile garbo in campo. Glamour come una star di Hollywood, luccicante abbronzatura sotto Natale con estrema invidia di Carlo Conti, faro autentico nella nebbia di San Siro anche quando non si vedeva la palla fosforescente ma lui sì. Era l’evo del Cesari ricciolone. L’amato arbitro coi boccoli leggiadri che stava meglio in salotto con brandy e sigaro tra le dita a disquisire di design che in mezzo al fango di Marassi ad insozzarsi i pregiati garretti. Una criniera leonina che ha bucato lo schermo, complice una erre arrotondata da casa Agnelli, fin dal 2002 quando malandrino diventò il primo arbitro parlante nei processi calcistici tv. Dicevamo della chioma del 2019.
“Il più grande spettacolo dopo il big bang”. L’effetto vaporoso dei tempi d’oro è scemato. È il turno di una sinuosa acconciatura che pur nella copiosa crescita pilifera preferisce adagiarsi schiacciata come una dolce polentina al forno, subito subito sul capo e verso il basso, modello capanno dal tetto spiovente sul mare. Una zazzera così lunga, talvolta fino alle spalle, con portamento da diva maliziosa e sbarazzina. “Ma come porti i capelli bel Graziano? Io li porto alla bella marinara, come l’onda in mezzo al mar”. E se non bastasse ecco il tocco di classe a far da contrasto a quel grigio-giallo del capello che scende: la rasatura corta e nerissima dei capelli sulle tempie che se ne stanno lì silenziosi in attesa della sentenza su un fuorigioco di Immobile. Una palette di colori, quella del bulbo del Graziano, che nemmeno tra l’arcobaleno di cartellini e taccuini del fu mestiere in nero. Solo una domanda, che poi è una considerazione. Nonostante Greta non si parla più di buco nell’ozono da tempo. Guarda caso dai primi anni duemila. Vuoi mai che l’arbitro Cesari non usi più la lacca da quando ha appeso le casacchina al chiodo?