In Italia, come altrove, le elezioni generali sono il principale mezzo di rinnovamento democratico. Ma che cosa accade se le elezioni non determinano un vero cambiamento, né possono determinarlo? E se fossero segretamente manipolate dallo Stato o da grandi vecchi, poteri forti, influencer stranieri? Che cosa succede se i sondaggi vengono predeterminati, fornendo una illusione di scelta democratica? Non è un pericolo astratto, soprattutto laddove la gente non ha tempo, pazienza, né alcuna voglia di affrontare qualunque discorso politico articolato, sempre che sia sorretta da una sufficiente capacità di comprensione verbale.

Se in passato queste preoccupazioni nascevano nei confronti delle democrazie immature dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, integrità ed efficacia dei processi elettorali sono a rischio anche nei paesi occidentali da sempre considerati il modello universale di democrazia. Lo stesso modello della democrazia rappresentativa, nella quale il rinnovamento era un valore intrinseco, non funziona più, a giudizio di molti in molti paesi. E, nell’era inaugurata da Donald Trump, gli Stati Uniti sono all’avanguardia, come sempre.

Se la Gran Bretagna in convulsione per la Brexit è un esempio da manuale, anche altri paesi europei stanno sperimentando una frammentazione che preclude ogni afflato di rinnovamento. Paesi mediterranei come Spagna e Italia sono ingessati da elezioni a raffica dentro un apparente caos, assai poco calmo ma del tutto immobile e, forse, meno favorevole di quello apprezzato dal Grande Timoniere, Mao Zedong: “Grande è la confusione sotto il cielo, perciò la situazione è eccellente”. E le nazioni europee dove la frammentazione è più contenuta e meno devastante sono quelle dove le questioni ambientali sono trattate con attenzione, visione, senso pratico.

La famosa difesa della democrazia da parte di Abramo Lincoln – “puoi ingannare tutte le persone per un po’ di tempo e alcune persone per tutto il tempo, ma non puoi ingannare tutte le persone per tutto il tempo” – viene smentita ogni giorno. Molti si chiedono le ragioni per cui la crisi pare inarrestabile. E forniscono le interpretazioni più varie. Sono convinto che una democrazia incurante dell’ambiente sia destinata al tramonto, come molti temono. Ma c’è un’altra ragione che mi ha particolarmente colpito: il possibile ruolo negativo della tecnologia o, piuttosto, il ruolo della tecnologia così come viene oggi declinato ovunque.

Un anno fa Yuval Noah Harari, autore di saggi straordinari come Sapiens e Homo Deus, ha scritto su The Atlantic che “l’intelligenza artificiale potrebbe cancellare molti vantaggi pratici della democrazia ed erodere gli ideali di libertà e uguaglianza. Essa concentrerà ulteriormente il potere all’interno di una piccola élite se non prendiamo provvedimenti per fermarla”. Secondo Harari, “le stesse tecnologie che potrebbero rendere economicamente irrilevanti miliardi di persone potrebbero anche renderle più facili da monitorare e controllare”. Come racconto nel saggio Morte e resurrezione delle Università, la tecnologia sta già stravolgendo forma e sostanza del lavoro, con il conseguente tramonto del sistema educativo che negli ultimi trent’anni ha rivoluzionato la società a scala globale.

La preoccupazione di Harari non è infondata. La rapida evoluzione della tecnologia non è indifferente nella crisi del lavoro in termini di quantità e, soprattutto, qualità, quale emerge dal Rapporto Censis 2019. Questa crisi solo rende un miraggio il primo capoverso del primo articolo della nostra Costituzione – “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” – ma mette a repentaglio anche il secondo: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Se per Harari “stiamo creando umani addomesticati che producono enormi quantità di dati e funzionano come chip efficienti in un enorme meccanismo di elaborazione dei dati, ma difficilmente massimizzano il loro potenziale umano”, come potremo avere cittadini consapevoli in grado di esercitare la propria sovranità?

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