“È colpa mia”. “Se fossi stata più presente”. “Se avessi fatto una scelta diversa”. Sono solo alcuni dei dubbi che ronzano nella testa di tante madri; anch’io spesso non sono riuscita a metterli a tacere.

Per qualcuna si tratta di mettersi in discussione per poi guardare avanti, ma per la maggioranza è un tarlo col quale convivere, per ragioni sempre diverse, e che si trasforma in strisciante senso di colpa, sospeso su ogni situazione fuori dal “manuale”.

Anche ai padri accade di assaporare il gusto amaro dell’incertezza, ma spesso lo avvertono per un tratto più breve; più scaltri nel razionalizzare le proprie perplessità, meno contagiati dalla compressione sociale che avvertono le mamme, anche quelle più presenti. Quel richiamo di plasmarsi per entrare in uno stampino fuori taglia, per combaciare con il modello che una data comunità definisce su cosa sia essere madre, togliendo dal compito stesso la leggerezza di restare fedeli a se stesse, pur sbagliando.

Se è vero che le donne di oggi lavorano di più, e non ci si aspetta da loro l’essere madre tout court, è altresì vero che alle riunioni coi professori o al cinema a vedere Frozen 2 le madri sono ancora la maggioranza, sebbene lavorino.

Oggi c’è il lavoro, c’è la famiglia e c’è anche la forma fisica, perché ça va sans dire che una donna fisicamente sciatta e fuori forma fa crollare le azioni delle altre due versioni di se stessa. Ce lo ricordano anche le pubblicità, come quella della cyclette Peloton, in un video che ha fatto molto discutere.

L’imbrigliatura scatena anche nuove forme di autodafé social, come per il tragico episodio della bambina di tre anni morta cadendo dalla finestra della sua casa di Genova, mentre la madre era andata a ritirare i fratelli da scuola (l’aveva lasciata a casa perché malata). La donna è stata sì oggetto di solidarietà da parte di una fetta di cittadinanza, ma anche condannata per direttissima da molti altri, senza possibilità di redenzione. Come se convivere con quello spaventoso ricordo non sia già di per sé una pena peggiore di qualsiasi tortura.

Come dimenticare il caso di Cogne e l’attenzione morbosa e sproporzionata che tutta l’Italia mostrò nei confronti di Annamaria Franzoni, che compié l’inimmaginabile, e lo fece con l’aggravante del genere femminile. Diventò l’incarnazione del male assoluto, come se in qualche modo l’omicidio a opera di un padre avesse, per natura, qualche attenuante.

L’ansia da prestazione, quel filo sottile che ci lega alla visione di una figura infallibile, onnisciente, buona e giusta, lo sentono quasi tutte le donne, anche se nessuno gliel’ha mai detto, né insegnato. È un imprinting sociale che attinge dai gesti di chi ci ha preceduto, dai messaggi sottotraccia dei film, delle pubblicità, delle battute da bar.

E quella colpa, quell’incespicare sui propri passi, monta come un’impercettibile marea, che lentamente sale, affaticando il cammino. Quando qualcosa deraglia nella vita dei nostri figli, è dentro le nostre anime in bilico che cerchiamo il colpevole. A mani nude scaviamo per individuare errori, dimenticanze, mancanze. Le madri non sono perfette, e meno male. È in virtù dei loro limiti, della loro imperfetta e vulnerabile umanità, che siamo tutti sopravvissuti grazie e malgrado loro.

L’amore non ha una scala, non gli puoi dare un voto; ti aspetta tenendo al caldo il tuo cuore, riponendolo in luoghi dove non possa farsi male. Succederà anche ai nostri figli quando ripenseranno a come è stato diventare grandi, nonostante noi. Sarebbe davvero bello cominciare a coltivare verso noi stesse una tenera indulgenza e una placida consapevolezza della relatività che, tutti noi, siamo in questo mondo.

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