Leggendo certa stampa, pare che il drammatico problema dei rifiuti romani consista nello scegliere tra termovalorizzatori o no. Con relative strumentalizzazioni di tipo politico, certamente favorite dalla incapacità decisionale di questa giunta, paralizzata dai veti a qualsiasi soluzione impiantistica. E allora, mettiamo da parte le polemiche e facciamo chiarezza, iniziando da quanto prescrive la legge in via generale.
La gestione dei rifiuti deve avvenire secondo quanto stabilisce il piano regionale, che deve essere predisposto, adottato e aggiornato dalla Regione, sentiti i Comuni, i quali sono l’organo di riferimento per la gestione dei rifiuti urbani. Quanto al contenuto di questi piani, la legge, italiana ed europea, impone di attenersi a una precisa scala di priorità che vede al primo posto la riduzione alla fonte (il miglior rifiuto è quello che non viene prodotto), al secondo il riciclo, il riutilizzo e il recupero come materia, senza mutamento di stato; al terzo il recupero con produzione di energia (in cui rientrano i cosiddetti termovalorizzatori); e all’ultimo la discarica e gli inceneritori senza recupero di energia.
Quindi, i termovalorizzatori non vanno demonizzati ma utilizzati insieme e a completamento delle due opzioni che li precedono. In altri termini, prima bisogna ridurre i rifiuti alla fonte, intervenendo sui monouso, sugli imballaggi ecc. Poi, come seconda opzione, bisogna aumentare al massimo il riciclo e il compostaggio per riutilizzare i rifiuti direttamente, senza bruciarli. E quindi bisogna intervenire con decisione sulla raccolta differenziata: ci vuole il porta a porta, ci vogliono i controlli, ci vuole una valorizzazione competitiva delle filiere del riciclo che in questo momento sono “drogate” dai Consorzi; ci vuole soprattutto, la sensibilizzazione e la collaborazione dei cittadini.
Solo a questo punto si può passare ai termovalorizzatori: che sono previsti, appunto, come terza opzione; perché, se pure svolgono una funzione utile, possono rallentare il percorso delle prime due. E, comunque, per quanto ben fatti, provocano sempre un impoverimento delle risorse naturali e una alterazione ambientale; e necessitano di controlli rigorosi, continui e indipendenti. Tanto è vero che, in una comunicazione del 2017 sul ruolo della termovalorizzazione nell’economia circolare, la Commissione Ue ricorda che “il contributo maggiore al risparmio energetico e alla riduzione delle emissioni di gas serra proviene dalla prevenzione e dal riciclaggio dei rifiuti” e quindi raccomanda di “ridefinire il ruolo della termovalorizzazione per evitare che si creino sia ostacoli alla crescita del riciclaggio e del riutilizzo, sia sovraccapacità per il trattamento dei rifiuti residui”.
Infatti, per far entrare in funzione un nuovo termovalorizzatore – fra procedura per la localizzazione, indagini preventive, gara (con l’inevitabile contenzioso), affidamento, lavori e messa in esercizio – ci vogliono almeno 5-7 anni. Arriviamo allora al 2025, quando secondo la Ue dovremmo raggiungere almeno il 65% di riciclo imballaggi e il 55% di riciclo urbani. E quando la termovalorizzazione in prospettiva dovrebbe avere, quindi, un ruolo meramente residuale.
Se, a questo punto, consideriamo la situazione di Roma, appare evidente che, prima di decidere la costruzione di nuovi impianti, bisogna farsi bene i conti sulla reale quantità di rifiuti romani che dovrebbe andare a termovalorizzazione tra cinque anni; considerando, però, che molti rifiuti urbani (e sono tanti) che figurano provenienti dalla raccolta differenziata oggi non vanno a riciclo e riutilizzo perché la raccolta è di pessima qualità. E per essi il male minore è la termovalorizzazione, che quanto meno provoca certamente meno rischi della disastrosa situazione attuale e può evitare i micidiali “roghi tossici” e gli “incendi liberatori” di qualche impianto saturo di rifiuti urbani non riciclabili.
Tenendo conto che, comunque, il ciclo dei rifiuti urbani va chiuso e che, in base ai principi di autosufficienza ed economicità imposti dalla legge, non è possibile pensare di continuare a spedire fuori (anche all’estero) tutti i rifiuti romani non riciclabili. Valutazioni che devono essere ovviamente fatte all’interno del piano regionale cui spetta di tradurle sulla realtà territoriale. Ma che, realisticamente, già oggi impongono di programmare subito e realizzare con procedure di massima urgenza almeno un termovalorizzatore e una discarica (che purtroppo è sempre necessaria, anche per le scorie del termovalorizzatore).
Ma intanto, nella drammatica situazione attuale, che si fa? L’unica strada resta quella dell’emergenza con soluzioni temporanee immediatamente praticabili: potenziando e sfruttando pienamente, quindi, l’unico termovalorizzatore esistente (S. Vittore), e creando stoccaggi provvisori (e non discariche) di rifiuti urbani in aree controllate cui abbinare, al più presto, impianti di trattamento. Aree che, in base al principio di prossimità, devono essere il più possibile vicine al luogo di produzione dei rifiuti.
Con la consapevolezza che la strada dell’emergenza può essere praticabile solo nell’ambito (e con i limiti) dei poteri straordinari che la legge attribuisce, in questi casi, al sindaco e al presidente della Regione e non con ordinanze, come quelle appena emanate, di dubbia validità, fra loro contrastanti e addirittura prive del parere obbligatorio degli organi tecnici ambientali e sanitari (Arpa e Asl). Lasciando da parte considerazioni di convenienza elettorale e creando un clima non di scontro ma di leale collaborazione a fini di interesse pubblico. E, soprattutto, con la consapevolezza che, per funzionare, occorre in primo luogo ricreare la fiducia tra amministratori e amministrati, messa oggi a dura prova dall’avvilente scaricabarile cui assistiamo ormai da troppo tempo.