Adesso, se ne andranno. Gli alibi per il tira e molla sono finiti, l’illusione che i ‘remain‘ usciti sconfitti 40 mesi or sono fossero diventati maggioranza nel Paese reale è svanita: il voto britannico è stato l’equivalente di un secondo referendum e i ‘leave’ l’hanno vinto in modo travolgente, non di misura; Boris Johnson l’ha vinto in modo travolgente. “Pare una grande vittoria”, twitta con insolita cautela Donald Trump, che tifava per “l’amico Boris” (e che tifa Brexit, perché la disunione dei partner fa l’America più grande).
In realtà, è davvero una grande vittoria. In attesa dei risultati definitivi, si profila per i conservatori il miglior risultato dal 1986, quando la premier era Margaret Thatcher; e per i laburisti il peggiore dei tempi moderni, addirittura dal 1935. Johnson il rozzo porta a Westminster decine di deputati più di David Cameron l’aristocratico, che ne ebbe 331; e fa molto meglio di Theresa May la piangina, che non ebbe la maggioranza assoluta (326 seggi su 650).
Adesso, la Brexit sarà cosa fatta entro il 31 gennaio, come da promesse di Johnson: c’è chi pensa che i Comuni possano già votarla prima di Natale, i Lord tra Natale e Capodanno. I leader dei 27, riuniti a Bruxelles, possono solo prendere atto e prepararsi al contraccolpo, che sarà comunque meno forte per noi che per i britannici.
Anche l’idea d’una City spaventata dalla Brexit viene smontata dalla reazione dei mercati ai risultati: la sterlina va su, evidentemente la stabilità è un valore più apprezzato che lo stare nell’Ue o l’andarsene. A chi fa affari importa sapere che cosa succede per potersi regolare di conseguenza.
In un’Europa, in un mondo dove le elezioni non danno risultati chiari e vengono ripetute a raffica – vedasi la Spagna e Israele -, i risultati britannici sono netti e taglienti: Johnson avvicina i 370; Jeremy Corbyn, leader laburista ormai con i giorni contati, s’aggira sui 190 (ne perde una settantina); fanno bene gli indipendentisti scozzesi, che raccolgono 55 seggi sui 59 loro disponibili; fanno male – una dozzina di seggi – i lib-dem europeisti, la cui leader Jo Swinson non viene rieletta; fanno zero (seggi) i ‘brexiteers’ di Nigel Farage, che, però, si sacrificano per i conservatori (e il loro leader canta lo stesso vittoria, “siamo stati determinanti” votando conservatore dove serviva per vincere).
Johnson tesse l’elogio “della più grande democrazia al mondo”. I conservatori vincono in aree tradizionalmente laburiste, anche fra gli operai dell’Inghilterra del Nord, esattamente come Trump vinse nel 2016 nel Michigan e negli altri Stati manifatturieri. Johnson si conferma nel suo seggio, che pareva in bilico; Corbyn fatica nel suo, che pareva sicuro: “Alle prossime elezioni, non guiderò io il partito”, annuncia. Una parte consistente di britannici si riconosce in Johnson, come una parte – meno consistente – di americani si riconosce in Trump, che però aveva perduto il voto popolare.
Da oggi riprende il cammino della Brexit, rimasto in stallo durante la campagna elettorale, dove non s’è parlato d’altro, ma non si faceva nulla per avanzare (o per arretrare, a seconda delle prospettive). Gli effetti, e i costi, dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea non saranno però misurabili in modo compiuto prima della fine del periodo di transizione, certo non prima della fine del 2020, sempre che si trovi una soluzione definitiva alla questione irlandese.
Nessuno vuole reintrodurre una barriera fisica tra l’Eire e l’Ulster, ora che da vent’anni quel confine è pacificato – ma avvisaglie di un ritorno al clima sanguinoso dell’ultimo quarto del XX Secolo ci sono già state -, ma se la Gran Bretagna non vuole più fare parte del mercato interno unico europeo da qualche parte una frontiera andrà collocata.
Per le persone, invece, qualche scomodità è ipotizzabile in tempi relativamente brevi, soprattutto se Johnson vorrà dare la percezione che qualcosa è cambiato: comincerà, forse, con il rendere meno fluidi gli ingressi, più che con il rendere la vita difficile a chi è già residente.
In ogni caso, gli interlocutori britannici avranno a che fare coi volti nuovi della legislatura europea, il presidente del Consiglio Charles Michel e la presidente della Commssione Ursula von der Leyen, ma anche con l’inamovibile capo negoziatore europeo Michel Barnier, elemento di continuità e garanzia di competenza, l’uomo che è riuscito a non scalfire mai durante la trattativa l’unità dei 27.