Dall’Alitalia all’Ilva per arrivare fino a Tim e alla banda ultralarga. Nei momenti difficili non c’è dossier in cui la politica non tiri in ballo lo Stato imprenditore richiamando l’esperienza dell’Iri e tirando per la giacchetta Cassa Depositi e Prestiti, Mediocredito centrale o Invitalia. Nonostante il contesto storico e finanziario diverso dai tempi dell’Iri, è possibile immaginare di replicare quell’esperienza? Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto al professor Giancarlo Elia Valori, dirigente d’impresa che negli anni ’90 era ai vertici della Sme, il più grande gruppo agroalimentare italiano, controllato dall’Iri. E che oggi è presidente onorario di Huawei Italia e della società di consulenza International world group, che supporta lo sviluppo delle aziende italiane sui mercati stranieri.
Professore, ritiene che una nuova Iri sia anacronistica?
L’Iri, come è noto, servì a salvare alcune banche in estrema difficoltà, nelle more della crisi del 1929, arrivata dagli Usa in Europa, e il loro rapporto con molte importanti imprese italiane. Il criterio era la differenziazione tra prestito a “medio” termine e investimento bancario a breve. Oggi, abbiamo infinite imprese piccole e medie fortemente sottocapitalizzate, in Italia, e anche banche del territorio che non sono adatte, salvo rari casi, a investire nelle aziende. Oggi, il rapporto tra debiti finanziari e valore aggiunto delle imprese italiane è passato dal 100 al 180%. Le imprese più piccole, che sono, ripeto, la grande maggioranza delle nostre aziende, sono indebitate con una leva che supera il 60%. Il Margine Operativo Lordo (MoL) delle nostre aziende è oggi al 32%, che è molto basso e, oggi, il servizio del debito aziendale non è sostenuto, anche a medio termine, dall’aumento del tasso di produttività. Ecco la nuova e vera Questione Imprenditoriale, nell’Italia di oggi. Soluzioni? Accettare le garanzie assicurative delle imprese al pari di quelle bancarie, visto che le assicurazioni sono ancora molto “liquide”, poi garanzie al debito sia collettive che di settore. Il vecchio consorzio fidi, ma fatto bene.
Basterà un nuovo consorzio fidi? E Cdp, spesso chiamata in gioco dalla politica, quale ruolo avrà?
Occorrerà presto una nuova Mediobanca per le pmi. Con capitale misto, naturalmente. Quanto a Cdp come nuova Iri, certo la vecchia formula di Beneduce e Mattioli, perfetta, era “10 lire dei privati per ognuna dello Stato”. Oggi, occorrerebbe elaborare dei titoli sul mercato finanziario, emessi dalla Cdp quale “Nuova Iri” che, però, dovrebbero andare, e bene, nei mercati internazionali. Ogni idea nazionalistica è destinata al fallimento, oggi. Si può fare, la nuova emissione, ma non è cosa facile. Certo, i 300 miliardi di liquidità attuali della Cdp fanno ringalluzzire molti politicanti, ma, se si facesse un nuovo ente tipo Iri, anche pubblico-privato, occorrerebbe evitare il ricorso facile e irragionevole al risparmio bancario o, in questo caso, postale.
Ci sono altre controindicazioni?
Occorre evitare che, come accadde con la costituzione del ministero delle Partecipazioni statali, si carichi la Cdp, quale nuova Iri, dei famosi “oneri impropri”, ovvero della tutela dell’occupazione per motivi di collegio politico, o della gestione sine die di aziende decotte. Come fare per evitare questa spirale di assistenzialismo? Intanto, la differenza la fanno i manager. Evitare le fotocopie viventi dei luoghi comuni attuali, ma anche gli inesperti, gli economisti libreschi, liberisti o statalisti, tanto non ne capiscono niente ugualmente, poi quelli che farebbero fallire anche una edicola di giornali, e ne ho visti tanti. Poi, massima apertura alle informazioni di mercato, che la Cassa Depositi e Prestiti non fornisce ancora a sufficienza.
Resta sullo sfondo il tema della pianificazione politica…
Certo, il problema sta nel “manico”, ovvero nella classe politica, spesso inetta e raccolta tra “gli atri muscosi e i fòri cadenti”, per dirla con il Foscolo. Per il Mediocredito Centrale-Banca del Mezzogiorno, vale lo stesso discorso di cui sopra. Per Invitalia, la questione è più facile. L’Agenzia potrebbe già partecipare in operazioni di turnaround per entrare nell’equity delle imprese in difficoltà, cosa che, statutariamente, è più difficile per Cdp. Ma, in ogni caso, occorre evitare il crac fiscale dell’Italia. Quindi, fare una nuova Iri, se sarà possibile, con capitali freschi e raccolti secondo i criteri di mercato, nella finanza internazionale.
La Francia è fortemente indebitata, ma ha campioni nazionali come Edf, Peugeot e Renault, in cui lo Stato ha investito potenziando l’economia del Paese. Lei conosce bene vizi e virtù di Parigi che, con Mitterand, le ha conferito la Legione d’Onore. E’ il modello da seguire?
Hollande, il passato presidente francese, ha lanciato il suo progetto, tra il 2013 e il 2014, per la creazione di ben 34 piani per vecchi e nuovi “campioni nazionali”. Lo Stato francese controlla GDF-Suéz al 36%, poi le ferrovie, Orange, ex-France Télécom, è inoltre il maggiore azionista in Renault e, attraverso la sua Cassa Depositi e Prestiti, la Caisse de Dèpots e Consignations, sta in Vivendi, Accor e St.Gobain, la multinazionale del vetro fondata proprio da Colbert. Il ministro “statalista” di Luigi XVI. Le “grandi famiglie”, maledette da Mitterrand nella sua prima campagna elettorale presidenziale, hanno oggi un impegno nell’economia nazionale del 20%, ma, ai francesi, manca ancora la grande rete delle piccole e medie imprese, che sono forti anche in Germania, oltre che da noi. Fare lo statalista con fondi pubblici ridotti al minimo è quindi ridicolo.
Con la legge Florange, Parigi ha varato il voto doppio per i grandi investitori di lungo periodo. Pensa sia utile? O esistono soluzioni più efficaci per sostenere l’economia nazionale e difendere le imprese dagli appetiti internazionali?
La Legge Florange del 2014 è soprattutto contro le delocalizzazioni, ma almeno l’85% delle delocalizzazioni francesi vale per aziende con meno di 1000 dipendenti, e quindi la norma Florange non si applica. Gli investimenti esteri sono in calo, in Francia (che crescerà dello 0,3%) e in Italia gli Investimenti esteri diretti, crollati in tutto il mondo, sono ormai carenti. Se occorre ricostruire il mercato interno, certamente non lo si può fare con i soli apporti degli Investimenti Esteri. Allora? Liquidizzare rapidamente i debiti delle imprese e dello Stato, per poi investire in infrastrutture e in aziende ad altissimo valore aggiunto. Certo, un Piano come quello che il ministro tedesco Altmaier ha formulato per le imprese fino al 2030 sarebbe ottima cosa, e l’idea di un fondo sovrano germanico contro le scalate azionarie è ottima. Potremmo farlo anche noi, un Fondo sovrano, molto più grande di quello che inventò l’amico Tremonti, ma i soldi dovrebbero arrivare da titoli privati, garantiti dal pubblico, a medio e soprattutto lungo termine. Si può fare, ma è comunque difficile. Qui ci vogliono manager di Stato e privati che possono parlare all’orecchio dei grandi dirigenti finanziari internazionali, dei capi dei servizi di intelligence, dei dirigenti dello Stato, nostri o di altri, che si occupano di “operazioni speciali”. Ci sono, oggi, in Italia? Non mi risulta. Mi vengono qui in mente le mie tante chiacchierate con Antoine Bernheim (il banchiere francese scomparso nel 2012 è nella foto con Valori, ndr) con la Bettencourt, con l’amico Isambert, oppure con i diplomatici americani in zona di operazioni o con certi dirigenti cinesi o arabi….Ecco, manca il nesso giusto tra finanza e politica internazionale.
Ritiene che il Mes possa peggiorare lo stato di salute delle banche italiane e “assottigliare” i finanziamenti alle imprese? Dovrebbe forse il governo italiano entrare nel capitale delle banche come ha fatto la Francia in passato per Bnp Paribas?
Certo che il Mes non è una buona notizia per le nostre banche. E’ ovvio. Ma nessuno, oggi, può prevedere quanto e come le banche tedesche (e alcune francesi) riusciranno a premunirsi contro il loro default. Se, poi, riusciamo a creare in tempo delle operazioni stabili di liquidizzazione e rifinanziamento delle imprese, anche a partire dalle nostre banche, questo lo si può ancora fare. Ma in un silenzio di tipo trappistico. La normativa bancaria francese è stata più lenta, nell’adeguamento alle norme Ue, come peraltro quella tedesca, riguardo alle operazioni finanziarie nazionali nelle imprese fortemente indebitate. Occorrerebbe, magari, un Fondo di investimenti, di diritto non-Ue, che potesse fare, con le nostre banche, dopo la inevitabile crisi derivante dall’avvio del Mes, quello che hanno fatto le grandi banche sistemiche francesi con alcuni “campioni nazionali” di Parigi. Una certa sfrontatezza, a Strasburgo e a Bruxelles, sarebbe una ottima cosa, invece di pensare alla UE come certi europeisti tardivi, oggi, guardavano, negli anni ’70 all’Urss.
Perché, a suo avviso, la Francia riesce a mantenere fede ai piani pluriennali di sviluppo nei diversi settori dell’economia nonostante i cambi di governo e, in Italia, invece, accade spesso che progetti pluriennali, quando ci sono, vengano rimessi in discussione al mutare del colore politico?
Perché la Francia ha una tecnostruttura stabile, che rimane tale anche nei più rapidi e completi rivolgimenti politici. Per tornare alla sua domanda precedente, certo, occorrerebbe in Italia una nuova Ena (Alta scuola della pubblica amministrazione francese, ndr). Ma ricordandosi che l’Ena fu voluta da De Gaulle su proposta, incredibile a dirsi oggi, di un ministro comunista, che voleva giustamente l’accesso alle alte cariche dello Stato anche per i “capaci e meritevoli” di famiglie povere o della piccola borghesia. E, poi, che l’Ena ha sempre goduto delle attenzioni sapienti dei Servizi. Ma oggi, come accade anche per la Scuola Normale Superiore italiana, l’ascensore sociale è bloccato e, soprattutto, il paradigma culturale dell’economia politica e del management risponde al criterio egemonico degli Usa, che non è detto sia quello giusto.