Una mostra in senso postmoderno. Come d’altra parte era Sergio Leone, il “ridefinitore” delle regole del western, ma non solo, perché “allo stesso modo ma diversamente da Jean-Luc Godard, egli ha inventato il cinema moderno” sostiene Gian Luca Farinelli, il direttore della Cineteca di Bologna che ha concepito e realizzato C’era una volta Sergio Leone, la più grande esposizione a lui dedicata, che si aprirà domani 17 dicembre per chiudersi il 3 maggio negli spazi del Museo dell’Ara Pacis di Roma.
Già allestita due anni fa a Parigi con enorme successo (insieme alla Cinemathèque Française che l’ha co-organizzata con Bologna) ma qui “amplificata con nuove stanze, cimeli e concetti”, la mostra arriva in Italia laddove meglio non potrebbe collocarsi, luogo di memoria e di emozioni. “Per un trasteverino come Leone, che mai ha girato a Roma, ma è forse il più romano di tutti, questa tappa è la conclusione ideale del nostro percorso, iniziato ben 10 anni fa” continua Farinelli. Nutrita di momenti audio/visivi talmente iconici per il cinema mondiale da non necessitare quasi didascalie, la mostra si apre con “quello” squillo telefonico di C’era una volta in America, per chiudersi con il sorriso “in totale sospensione” di Robert De Niro dalla medesima pellicola. In mezzo, prevedibilmente, c’è un universo immenso come i deserti americani (in realtà ricreati in set spagnoli) fatto di immagini giganti o minuscole, ricordi di ogni tipo (“anche grazie alla famiglia Leone e ai disegni di Carlo Simi”) come “lo spolverino di Clint Eastwood, il pianoforte da poco ritrovato ove scorrevano le indimenticabili note scritte da Ennio Morricone” (suo compagno alle elementari), ma anche “le pagine di stroncature della critica del tempo, le sue radici culturali, le fonti d’ispirazione” aggiunge il direttore della Cineteca emiliana. Se è infatti vero che Leone partì da Akira Kurosawa, copiandone La sfida del samuraiinquadratura per inquadratura (e perdendo per plagio la causa intentata dal regista giapponese contro di lui) per realizzare il suo primo western Per un pugno di dollari, le due opere sono completamente diverse, al punto di aderire a quanto continuamente ci ricorda Quentin Tarantino, il suo fan più illustre: “Da Leone si può solo ripartire”.
Lo spaghetti-western, di cui Sergio Leone è stato l’inventore, è arrivato infatti in un momento storico del cinema in cui “il più iconico dei generi americani era giunto a consunzione, grazie alle intuizioni di Leone è stato reinventato”. La mostra è un atto celebrativo “dovuto ed emozionante” – asseriscono le istituzioni capitoline accorse alla conferenza di presentazione – per festeggiare non solo i 30 anni dalla morte di Leone ma anche i suoi 90 dalla nascita, essendo nato il 3 gennaio 1929 e scomparso il 30 aprile 1989. Di Sergio Leone, che con soli 7 film scritti e diretti dal 1969 al 1984 passò alla Storia, è impossibile sintetizzare la forza immaginifica di suoni, frasi e inquadrature passati all’immaginario collettivo: dall’arrivo in treno di Claudia Cardinale in C’era una volta il West all’inquadratura del ponte di Brooklyn di C’era una volta in America, passando per le indimenticabili facce e sentenze contenute nella trilogia del dollaro (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo), laddove il giovane Eastwood ci ricordava certe “regole di vita” divenute proverbiali: “Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica, e chi scava. Tu scavi”.
Foto di Lorenzo Burlando