A poche ore dalla firma del memorandum di intesa vincolante che darà ufficialmente il via libera al matrimonio fra l’italoamericana FCA e la francese PSA, si vanno definendo gli equilibri di forza del nuovo soggetto industriale: nonostante la fusione sia paritetica, i francesi avranno l’ultima parola sulle strategie. Infatti, il consiglio di amministrazione della nuova società riserverà cinque posti a FCA e altrettanti a PSA, mentre l’undicesimo sarà quello di Tavares, amministratore delegato di PSA e, probabilmente, anche del nuovo Gruppo, il quarto al mondo (8,7 milioni di auto prodotte e un giro d’affari di 184 miliardi di euro). Nel frattempo, sarebbe pure arrivato il via libera all’accordo da parte dello Stato Francese, fra i principali azionisti di PSA (ne detiene il 12%).
Secondo quanto riporta Reuters, però, gli azionisti transalpini avrebbero richiesto precise garanzie sul mantenimento di un vantaggio numerico nel consiglio di amministrazione del nuovo soggetto industriale anche nel caso in cui Carlos Tavares dovesse rassegnare le dimissioni. Ma la pretesa di cristallizzare in maniera permanente gli equilibri di comando potrebbe essere più spinosa del previsto. Infatti, se un primo periodo a “guida francese” sarebbe accettabile – oltreché auspicabile, visti i brillanti risultati finanziari ottenuti da Tavares alla guida di PSA –, potrebbe non esserlo a lungo termine.
A Exor, la holding della famiglia Agnelli che è principale azionista di FCA, non farebbe differenza alcuna: John Elkann presidente di FCA e molto probabilmente del nuovo Gruppo, è di formazione francese; la dinastia Agnelli è in ottimi rapporti con la famiglia Peugeot e, infine, Exor desidera dedicarsi a business più remunerativi di quanto non lo sia Fiat-Chrysler. Tuttavia, la questione governance potrebbe fare la differenza, e molta, per il braccio americano di FCA, che subisce l’influenza diretta della Casa Bianca. Non solo perché Jeep e Ram sono gli unici marchi in salute di FCA (e con un enorme potenziale di crescita e redditività), ma sono anche quelli attraverso cui PSA tornerebbe a mettere piede sul mercato nordamericano.
Inoltre, la guida ai piani alti di FCA è detenuta da manager americani o inglesi (pochissimi gli italiani, con limitato peso decisionale). E se nella loro partita per la leadership i francesi avranno vita facile sugli italiani, potrebbero non averla sugli americani (tanto più se la presidenza Trump verrà riconfermata), poco avvezzi a prendere ordini, gli stessi che a Parigi vorrebbero impartire sia a Torino che a Detroit. La storia, però, è ancora più complessa di così: l’affaire FCA-PSA farà scattare una distribuzione straordinaria di dividendi da 5,5 miliardi da parte di FCA ai suoi azionisti (che porterà 1,6 miliardi nelle tasche di Exor).
Sicché il valore di FCA al momento dell’accordo è stato quantificato in circa 13,2 miliardi contro i 20 di PSA. Ne consegue che i francesi, pronti alla fusione al 50-50, hanno riconosciuto a FCA – che ha persino una redditività più bassa rispetto a quella di PSA – un valore di gran lunga superiore a quello effettivo: in poche parole, i parigini stanno comprando il posto di guida del nuovo Gruppo. Basterà questo per rimanere saldamente al volante anche in futuro?
In questo groviglio di “se” e di “ma” non passa inosservato il silenzio del Governo italiano, figlio di un’impotenza maturata nel corso degli anni: con Fiat, prima, e con FCA, poi, l’influenza dello Stato sul principale costruttore nazionale è diventata progressivamente nulla, specie da quando l’azienda ha trasferito la propria sede di diritto in Olanda. E mentre le garanzie sui livelli occupazionali d’oltralpe sembrano molto solide, viste le pressioni dell’Eliseo e il suo peso nel nuovo gruppo (6%), quelle sugli stabilimenti italiani potrebbero esserlo meno. Anche perché a ogni grande fusione conseguono grandi “razionalizzazioni”.