“Siamo scesi in piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. E’ stata energia pura”. Nel primo post delle Sardine c’è la specificità, e il merito politico, di questo straordinario flash mob riuscito oltre ogni aspettativa; un “movimento emozionale” che ha infranto (momentaneamente) un clima di paura cavalcato dalle destre, sulle macerie di un lavoro fatto a pezzi, certo, ma non senza l’aiuto di media e social media.

L’abilità di Mattia Santori e degli altri organizzatori è stata nel sapere ‘entrare e uscire’ da Facebook, facendo dialogare la cosiddetta “mediasfera” e la realtà della piazza, in un gioco in cui l’una rafforza l’altra. Con una semantica più dolce, che fa leva su parole come “siamo empatici’ o ‘siamo vulnerabili’. Questa convocazione ha funzionato e ha sospeso quell’isolamento, o quel “senso di accerchiamento”, a cui molte persone, in modo fondato o meno impaurite, sembravano essersi rassegnate. Perché nell’era della percezione alterata, i profili violenti sono quelli che emergono con più facilità e catturano l’attenzione dei riflettori. Un fatto a cui va ad aggiungersi quello, nuovo, di un utilizzo scientifico della “fabbrica social della paura”, titolo dell’ottimo servizio di Report.

Lo spirito dei tempi offerto dai media è dunque di una società civile inferocita quando invece, nella realtà, quest’ultima sembra spesso molto più avanti della propria rappresentazione mediatica – come mostra anche lo studio More in Common e Social Change Initiative, 2018: “la maggioranza degli italiani prova sentimenti di solidarietà ed empatia per gli stranieri: l’opinione pubblica italiana è spesso più sfaccettata di quanto si immagini”.

Non aiuta poi il dialogo tra la logica dei media on line e i social. Ad esempio la scelta di una scena violenta, la sua riproduzione in dettaglio, il suo commento, etc. e di nuovo la riproduzione enne volte sui social può offrire una lente “spaventata” per leggere il mondo esterno. Anche questo scoraggia dall’incontro concreto, rafforza la logica del nemico e la chiusura identitaria di cui si serve la propaganda politica delle destre razziste.

“Usciamo da Facebook”, dicono a un certo punto alcuni ragazzi. L’effetto è sconvolgente. Ci si guarda, ci si conta, ci si riconosce – appunto. È il ritorno all’incontro concreto, e su larga scala. Gli haters dove sono? Nel cyberspazio. Il flash mob bilancia, dunque: rimette in equilibrio, dà indietro un po’ di quel mondo a cui si era abituati. È il merito fuori discussione delle Sardine, che forse spiega le reazioni talvolta aggressive verso chi, sempre sui social, muoveva le prime (legittime) critiche al movimento.

Arriva, poi, il momento “davvero” politico: Mattia Santori rende noto il programma in Piazza San Giovanni, alla manifestazione nazionale, ma non vi si ravvisa alcun contenuto politico incisivo, se non astratti richiami ad ‘abbassare i toni’.

L’unico punto significativo – il decreto sicurezza – è traballante: “Chiediamo di ripensare il decreto sicurezza. C’è bisogno di leggi che non mettano al centro la paura”. Si sente a quel punto un “fateci parlare!”. Sono le “Sardine nere”, la linea dura, che chiede l’abrogazione (e che per raggiungere il palco ha dovuto subire gli spintoni del servizio d’ordine). Santori si corregge in corsa: “abrogare, ok… lo stavo dicendo” e va avanti.

Santori ha fatto (più volte) endorsement a Stefano Bonaccini – candidato in Emilia Romagna per il Pd -, schiacciato sulla linea Minniti per le politiche dell’immigrazione, quindi senza differenze granché sostanziali rispetto alle vecchie destre. Perché Bonaccini si muove nel frame culturale della sicurezza come risposta all’immigrazione, quello che tanti anni fa ha aperto la strada alla costruzione della paura.

Quel grido delle Sardine nere ci ricorda che il capitale di gioia e di partecipazione di oggi, se si muove acriticamente in direzione Pd, è destinato nel giro di poco a quel ritiro sociale da cui le Sardine stesse lo hanno in questo frangente affrancato.

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