Nel 1991, i Red Hot Chili Peppers sono quelli che il gergo discografico anglosassone definisce “raw talent”: talenti grezzi, sicuramente interessanti ma ancora non a fuoco. Nel corso degli anni ’80 sono passati da essere famosi a livello regionale, California e dintorni, a un approccio su scala nazionale, con varie (e spassosissime: cercatele in rete) comparsate sulla neonata MTV. Sono la band perennemente “lì lì per fare il botto”, per usare un termine da gergo discografico molto italiano. C’è però un dettaglio non trascurabile: i RHCP sono sulle scene da quasi dieci anni, e continuano ad essere fuori fuoco. Rischiano di essere la grande promessa non mantenuta degli anni ’80. Soprattutto dopo che il chitarrista Hillel Slovak – fondatore del gruppo insieme al cantante Anthony Kiedis e al bassista Flea – scompare tragicamente nel giugno del 1988, stroncato da un’overdose. Ma il 1991 è l’anno in cui i Red Hot Chili Peppers hanno un appuntamento col destino. Un destino che per Flea e Kiedis ha due nomi: Rick Rubin e John Frusciante. Il primo è un produttore, o meglio “il” produttore. L’uomo che ha segnato la discografia americana dagli anni ’80 in poi, capace di portare al successo Beastie Boys, Run DMC, Slayer, Linkin Park, di riportare al successo Johnny Cash; e il cui nome, da qualche anno, circola molto in Italia per le produzioni degli dischi di Jovanotti. Rubin capisce al volo cosa serve ai Chili Peppers per svoltare: asciuga la loro esuberanza esecutiva, li focalizza sulla scrittura e accentua la loro vena funk, senza annacquare le loro caratteristiche migliori. L’altro nome destinato a cambiare le carte in tavola per la band californiana è quello di John Frusciante. Un giovane chitarrista ventenne che ama e conosce tutti i lavori del gruppo, e che si inserisce a meraviglia sul tessuto ritmico imbastito da Flea e dal batterista Chad Smith (va detto che i due sono musicisti fenomenali, da tutti considerati veri riferimenti per i rispettivi strumenti), diventando il vero sostituto di Hillel Slovak dopo la breve parentesi di DeWayne McKnight. E lui, l’uomo “che è uscito dal gruppo”, oggi rientra (di nuovo) nei Red Hot.
Il risultato è il disco che cambia tutto. ‘Blood Sugar Sex Magik’ esce il 24 settembre 1991 ed è un successo planetario. Uno dei migliori album degli anni ’90. L’ago della bilancia di una carriera e il manifesto di sound unico, che scolpisce la prima parte del decennio ispirando numerosi imitatori anche da questa parte dell’oceano (i primi dischi dei Negrita, ad esempio, ne sono fortemente debitori). Frusciante ha finalmente dato la quadratura al cerchio dei Red Hot. Ce l’hanno fatta, a quanto pare. I singoli ‘Give It Away’ e soprattutto ‘Under The Bridge’ diventano simboli della loro discografia, lo stile di Frusciante calza perfettamente con quello storto e strampalato – eppure impeccabile e virtuoso – degli altri membri. In studio e sul palco. Sembra tutto perfetto. Solo che i problemi della band con i chitarristi non sono per niente risolti. Frusciante è giovane e si lascia sedurre dallo stile di vita “alto” dei compagni, che con droghe ed eccessi vari non ci vanno leggeri. Nel 1992, nel bel mezzo del tour di ‘Blood Sugar Sex Magik’, in Giappone, decide di abbandonare il gruppo. Il rimpiazzo sono i turnisti Arik Marshall e Jesse Tobias, che concluderanno le date della lunga tournée e saranno con i RHCP per qualche apparizione live degli anni successivi. Ma serve un’altra svolta.
Per il sofferto e delicato seguito di un disco importante come ‘Blood Sugar Sex Magik’ serve una personalità forte. Viene chiamato Dave Navarro, chitarrista dallo stile molto più duro e spigoloso di Frusciante, che dà all’album ‘One Hot Minute’ del 1995 un tiro completamente diverso. Navarro arriva dall’esperienza con i Jane’s Addiction, l’altro lato dell’alternative rock americano tra gli anni ’80 e ’90. Grande tecnica, suono diverso ma molto compatibile con Flea, Chad e Anthony. Grande amante di sballi assortiti come i compagni di band. Il sodalizio però funziona a metà. Navarro resta con i Red Hot fino al 1998, poi rientra Frusciante in quella che di fatto è la formazione tipo dei Red Hot Chili Peppers, un quartetto base con Rick Rubin come allenatore, per fare una metafora sportiva. Infatti, il risultato è ‘Californication’ (1999), best seller che inaugura un periodo pop di enorme successo per la band: ‘By The Way’ e ‘Stadium Arcadium’, gli album successivi, portano i RHCP al successo massiccio, mainstream, stadi e classifiche. Anni d’oro in cui tutto è al posto giusto. Ma qualcosa non va. Frusciante sente che il giocattolo è rotto e se ne va di nuovo. È il 2009. Al suo posto, viene chiamato Josh Klinghoffer, fan del gruppo e collaboratore di lunga data proprio di Frusciante. Uno che era già nell’orbita dei Red Hot Chili Peppers e ne conosce bene le dinamiche. Un ottimo gregario, che non avrà mai il carisma, l’estro, l’inventiva e la genialità di John, chitarrista strepitoso nell’invenzione dei riff, non eccessivamente legato a virtuosismi da nerd dello strumento e invece, al contrario, grande performer proprio per il suono funk, sporco e ruvido, stiloso, sensuale, fisico.
Dopo dieci anni Klinghoffer, l’eterno numero due, che non hai mai davvero convinto né conquistato i fan (e forse nemmeno il resto della band), viene congedato, ringraziato e accompagnato alla porta. Arrivederci e grazie. Descansate, niño. Il titolare riprende il suo posto. È domenica 15 dicembre 2019.Sui canali social della band, Kiedis e soci annunciano che John Frusciante è di nuovo il chitarrista dei Red Hot Chili Peppers. Addii, partenze, ritorni. Per il mondo, i Red Hot Chili Peppers sono Anthony Kiedis, Flea, John Frusciante e Chad Smith. Poi ci sono le altre parentesi, più o meno durature, più o meno fortunate. Il compianto Slovak, lo stravagante Navarro, il mediano Klighoffer. Argomenti di conversazione per veri appassionati. Ma nell’immaginario collettivo, oggi i Red Hot Chili Peppers tornano ad essere i Red Hot Chili Peppers. Al 100%. E vista l’anzianità di servizio, è bello pensare che stavolta possa essere per sempre.