Non ci sarà una terza lettura. Quella approvata lunedì al Senato è di fatto la versione definitiva, visto che a causa dei tempi strettissimi la Camera non avrà modo di fare altri cambiamenti. “Faremo ricorso alla Consulta“, annuncia Matteo Salvini, sottolineando la “mancanza di trasparenza” e criticando “tempi e modi” dell’esame. Un déjà vu, ma al contrario. Lo scorso anno, quando la Lega era al governo, furono 37 senatori Pd a fare ricorso alla Corte costituzionale. La manovra arriverà in Aula a Montecitorio per il via libera definitivo domenica 22 dicembre dalle 9.30, con discussione generale e inizio votazioni, come deciso dalla capigruppo. Il governo, riferiscono le agenzie di stampa, è intenzionato a mettere la fiducia già il giorno dell’approdo alla Camera.
Anche Fratelli d’Italia ha protestato per i “tempi troppo brevi”. Francesco Lollobrigida ha abbandonato la conferenza dei capigruppo a Montecitorio: “Mai una Camera ha avuto tempi così stretti, denunceremo questo fatto in ambiti extraparlamentari e parlamentari, siamo pronti a ricorrere in termini legali”. Il presidente della Camera, Roberto Fico, interpellato dai giornalisti ha commentato: “Abbiamo fatto il calendario rispettando tutte le forze politiche”. Sui tempi stretti è intervenuta anche Maria Elisabetta Casellati: “Non si tratta di un problema riferibile esclusivamente a questa Legislatura, ma negli ultimi anni la questione dei tempi di esame dei disegni di legge di iniziativa governativa sta assumendo dimensioni che, come Presidente del Senato, non posso non ritenere quanto meno preoccupanti“.
Quest’anno la manovra ha ottenuto il sì con la fiducia del Senato solo il 17 dicembre. Lo scorso anno, nonostante lo scontro con la Commissione Ue sulla possibile procedura di infrazione, la discussione generale sulla legge di Bilancio era iniziata alla Camera già il 5 dicembre e il via libera finale con la fiducia era arrivato il 29 dicembre. Nel 2017 (governo Gentiloni) invece i senatori avevano votato la finanziaria già il 30 novembre, nel 2016 il primo passaggio d’Aula (quell’anno alla Camera) era stato il 25 novembre, nel 2015 (Renzi) il 19 novembre al Senato, nel 2014 (Renzi) il 28 novembre alla Camera.
La conseguenza del ritardo, legato stavolta non alle trattative con Bruxelles ma a difficile negoziato tutto interno tra le anime che sostengono il Conte 2, è che i deputati non avranno di fatto la possibilità di toccare palla. Potranno solo mettere il timbro sulle misure già approvate. Perché il tempo per una terza lettura non c’è. A differenza del 2018 quando comunque infuriarono le polemiche sull’impossibilità di discutere in dettaglio sui contenuti, perché le opposizioni non avevano avuto modo di esaminare i contenuti del maxiemendamento concordato con la Ue. A gennaio la Corte costituzionale si espresse sul ricorso del Pd, ritenendolo inammissibile, ma avvertì che per il futuro modalità di decisione e approvazione che comportassero forti e gravi compressioni dei tempi di discussione avrebbero dovuto “essere abbandonate altrimenti potranno non superare il vaglio di costituzionalità”.