Guardi il Mondiale per Club, in corso di svolgimento in Qatar, e pensi subito alla cara, vecchia Coppa Intercontinentale. In realtà, però, la competizione sdoganata dalla FIFA nel 2005, dopo una rapida sperimentazione, non è semplicemente la Coppa Intercontinentale del terzo millennio, ma rappresenta un qualcosa di più globale. Lo dimostra la formula, la più inclusiva possibile, anche se non esattamente paritaria: a differenza della Coppa Intercontinentale, una questione privata tra Europa e Sudamerica, il Mondiale per Club ha riunito sotto lo stesso tetto i campioni di tutte le confederazioni calcistiche mondiali, fondendo in sé tutta una galassia di coppe e tornei spesso improbabili e oggi praticamente dimenticati, anche se non per questo degni di minore attenzione.
Il cammino per arrivare al format odierno è stato parecchio lungo, lastricato di storie incredibili e popolato da personaggi mitici. Prendete ad esempio Sir Thomas Lipton. Tutti lo conoscono come un grande uomo d’affari, famoso soprattutto per il commercio del tè, ma in pochi sanno che è stato proprio lui a finanziare un primo, embrionale tentativo di torneo planetario. Corre l’anno 1909 quando la coppa che porta il suo nome finisce nelle mani dei minatori inglesi del West Auckland Town, i primi a potersi fregiare dell’ambito titolo di “campioni di del mondo”. La macchina si è messa in moto. Quasi mezzo secolo più tardi la voglia di dare vita ad un torneo che coinvolga compagini provenienti da ogni angolo del pianeta attecchisce anche in Sudamerica: i primi germogli cominciarono a sbocciare in Venezuela. Qui, grazie al supporto di alcune cordate di imprenditori, vede la luce nel 1952 la cosiddetta Pequeña Copa del Mundo. Le uniche squadre italiane a partecipare sono le due romane, anche se la Lazio lo fa negli anni ’60, quando il torneo ha già da tempo imboccato il viale del tramonto.
Nel frattempo, infatti, in Europa ha fatto capolino la Coppa dei Campioni e inevitabilmente la Pequeña Copa del Mundo ne ha risentito in termini di appeal. È solo l’inizio di un declino, reso irreversibile dalla nascita della Coppa Intercontinentale e completato dal sequestro-lampo di Alfredo di Stéfano, rapito nell’agosto del 1963 e subito rilasciato da un gruppo rivoluzionario proprio mentre con il Real Madrid si trovava in Venezuela per disputare la Pequeña Copa del Mundo. La Coppa Intercontinentale, partorita da un patto UEFA-CONMEBOL e giocata in finale unica nella terra del Sol Levante per motivi commerciali a partire dagli anni ’80, gode comunque di buona compagnia. Nel 1969, ad esempio, per la prima e unica volta si gioca una coppa intercontinentale parallela, CONCACAF- UEFA. I messicani del Cruz Azul sfidano il Manchester United di George Best, pronto a sostituire il Milan di Rocco che ha gentilmente declinato l’invito, e vincono a sorpresa, conquistando il trofeo dopo aver rifilato un leggendario 2-0 ai Red Devils: “Non ho parole per definire questa impresa internazionale”, dichiara Don Guillermo Álvarez Macías, uno dei patriarchi storici della Máquina Celeste.
Questo torneo rimarrà un unicum, perché nel continente americano le faccende calcistiche hanno preferito risolverle tra di loro, inventandosi una competizione a carattere quasi familiare, una specie di ponte tra la dottrina Monroe e quella di Simón Bolívar. È nata così nel 1968 la Coppa Interamericana, con l’obiettivo di eleggere la più bella del reame tra la vincitrice della Copa Libertadores e quella della ConcaChampions. Ma c’è un problema: vincono sempre le sudamericane, come del resto ampiamente prevedibile. Per vedere una squadra nordamericana trionfare, interrompendo il monopolio sudamericano, bisogna attendere il 1978: a compiere l’impresa è il Club América di Città del Messico, che supera il Boca Juniors dopo un tiratissimo spareggio grazie ad una punizione del Maestro cileno Carlos Reynoso. Dopo pochi alti e molti bassi, come la mega rissa del 1990 tra i messicani del Club América e i paraguagi dell’Olimpia, il cuore della Coppa Interamericana cessa di battere nel 1998 a Fort Lauderdale, in Florida. E, paradossalmente se si pensa alla supremazia della CONMEBOL, lo fa con una vittoria di una squadra della CONCACAF: gli yankees del DC United.
Nello stesso periodo, più o meno, chiude i battenti ed entra nell’archeologia calcistica anche la Coppa dei Campioni afro-asiatica, una competizione sorella della Coppa Intercontinentale, in cui la regina d’Africa sfidava quella d’Asia: nelle undici edizioni disputate, dal 1986 al 1999, emerge chiaramente il dominio del calcio africano (8 successi contro i 3 delle asiatiche). La competizione viene abolita alla vigilia della sfida tra gli ivoriani dell’ASEC Mimosas e i giapponesi del Jubilo Iwata, a causa del deterioramento dei rapporti tra le due confederazioni. Tutta colpa di un dispetto politico fatto dalla AFC alla CAF: al momento dell’assegnazione dei mondiali del 2006, infatti, gli esponenti asiatici avevano votato per la Germania, anziché far ricadere la loro preferenza sul Sudafrica, mandando su tutte le furie i loro colleghi africani. Insomma, l’era pre-Mondiale è stata caratterizzata da un affollamento di tornei più o meno autorevoli, talvolta a carattere amichevole, quasi sempre non riconosciuti. Non deve, quindi, stupire se tanti nel corso degli anni hanno rivendicato la fascia di “campioni del mondo“. Ma la FIFA ha legittimato come tali solamente i vincitori della Coppa Intercontinentale, quella canonica. Gli ultimi a presentare un’istanza di questo tipo alla FIFA sono stati nel 2012 i brasiliani del Club do Remo, vincitori di una kermesse antesignana della Pequeña Copa del Mundo. Le possibilità di vedersi riconosciuto l’alloro mondiale, però, sono pochissime. Anche perché c’è già un precedente: la FIFA ha risposto picche ai brasiliani del Palmeiras, che avevano chiesto un riconoscimento istituzionale per il loro trionfo del 1951 alla Copa Rio, un altro di quei tornei finiti nel dimenticatoio.