I neonati sindacati delle Forze armate dovrebbero costruire ponti verso la società civile, favorire il dialogo con la collettività. Cioè fare tutto il possibile per superare la diffidenza e l’ostilità di larga parte dell’opinione pubblica verso i lavoratori con le stellette, evitando ogni dannosa tendenza corporativistica.
Da mesi lo va ripetendo senza sosta Cleto Iafrate, esperto di diritto militare e pioniere del sindacalismo militare. Il vero sindacato difende i diritti civili e sociali dei militari e lavora per rendere l’organizzazione più efficiente. Il vero sindacato opera per il bene di tutta la società, mai per giustificare abusi e condotte irregolari. Va combattuto, con fatti concreti, il pregiudizio di chi considera un privilegiato chi indossa una divisa.
La storia del nostro Paese e anche la recente cronaca giudiziaria – gravissima la vicenda Cucchi, se le condanne saranno confermate – ci mostrano purtroppo diversi casi di depistaggi e di indagini su reati addebitati ad appartenenti alla polizia giudiziaria che risultano inefficaci o contrassegnate da ritardi. Questo può accadere anche perché non esiste alcuna norma di procedura penale che, come avviene per i magistrati, vieti a ciascuna polizia di indagare su se stessa. Eppure è facile capire quanto sia problematico il selfie di polizia giudiziaria.
A parte le patologie più gravi, indagare sui colleghi, o addirittura sui propri superiori gerarchici, è naturalmente difficoltoso, imbarazzante. Potrebbe perfino prevalere un presunto “interesse superiore” di tutela dell’immagine dell’Istituzione. Ma anche per un Pm non è semplice gestire un procedimento penale su un poliziotto col quale ha magari messo a segno brillanti inchieste.
“Dai, passa col rosso, che ti importa della legge? Dai, tu puoi fare qualsiasi cosa, fallo! Tu puoi commettere qualsiasi delitto!”, così Augusta Terzi (Florinda Bolkan) invitava il suo amante, capo della Squadra Omicidi di Roma (Gian Maria Volonté), ad abusare del proprio potere. Il film è Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, uscito nel febbraio del 1970, cioè la prima pellicola italiana a parlare della polizia.
Il commissario prende alla lettera le parole di Augusta e nel giorno della promozione all’Ufficio politico la uccide durante un gioco erotico. Poi si prodiga a seminare ovunque le tracce della sua colpevolezza, per dimostrare a se stesso e a tutti di essere, in quanto rappresentante del Potere, al di sopra di ogni sospetto e quindi di ogni possibile incriminazione. Uscito indenne dalle indagini, a quel punto si autoaccusa. Sgomenti i colleghi. “Ma non hai pensato a tutti noi?”, dice uno di loro. Che significa: “Ma hai pensato alla figuraccia che farai fare alla Polizia?”. Il capolavoro di Petri finisce senza svelare se il commissario la farà franca o meno. Sullo schermo appare la citazione di Kafka: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”.
Insomma la questione è vecchia e mai affrontata. Il poliziotto che delinque è un ossimoro intollerabile. Così come sono inaccettabili le notizie di maltrattamenti o di morti sospette di detenuti e di persone comunque affidate alla custodia delle forze dell’ordine. Si dovrà applicare pienamente l’art. 13, comma 4, della Costituzione: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
Lo Stato può esercitare legittimamente la forza, non certo la violenza belluina o la tortura. Per rendere più difficile che le condotte illecite di appartenenti alle forze dell’ordine restino impunite, si potrebbe allora introdurre nel codice di procedura un divieto di auto-indagine, simile a quello già previsto dall’art. 11 per i procedimenti nei confronti dei magistrati.
Va in questa direzione un disegno di legge presentato di recente dalla senatrice Angela Bruna Piarulli, già direttrice del carcere di Trani. Nuove regole sulla competenza a condurre le indagini e a giudicare impediranno – come si legge nella relazione introduttiva – che “un agente o un ufficiale cui è contestato un reato venga indagato dal medesimo ufficio giudiziario dell’ambito territoriale presso cui svolge le funzioni”. Questo per rispondere in modo concreto a una diffusa domanda di giustizia. Qualcosa si muove, per fortuna.