“Quello che cerco di fare nel mio lavoro è ridurre la distanza tra l’intrattenimento artistico che vedevo in TV da bambino e quello che pensavo fosse vero, reale”. Sono le parole con cui Matt Groening stesso, nel documentario My wasted life, descrive l’obiettivo che si era posto nel momento in cui ha creato i Simpson.
Da allora sono passati trent’anni e quello che è avvenuto nel mentre è stata una rivoluzione dell’animazione seriale. Prima di Homer e congiunti, l’unica famiglia animata mai arrivata a dominare l’ora di cena nelle tv statunitensi era stata quella dei Flintstones, con la loro parodia innocua di una corporate America ancora primitiva, alle prese coi propri miti fondanti di famiglia e progresso.
La Springfield itterica di Groening, invece, si serviva proprio di quei miti fondanti per ridicolizzarne le ipocrisie, per introdurre un retrogusto amaro nella torta di mele tradizionale, e un sospetto di sofisticazione alimentare nel tacchino del Ringraziamento. Lo faceva innanzitutto cercando di ridurre appunto la distanza tra i paradossi surreali dell’animazione e un’eco che facesse risuonare come verosimile le tematiche affrontate dagli episodi.
Homer poteva cadere in un dirupo o prendere cannonate in pancia senza morire, proprio come avveniva a un Willy il Coyote qualsiasi, ma venendone comunque fuori con seri danni fisici, per quanto fittizi e richiesti appunto dalla narrazione. Soprattutto, alcuni personaggi potevano non fare più ritorno da un incidente (si veda la morte di Maude Flanders nell’undicesima stagione). La sospensione dell’incredulità, insomma, si faceva flessibile ma comunque ai fini di una opportuna imitazione del reale.
Questa imitazione non solo si è calata talmente tanto nella realtà popolare da sorpassare a destra la dimensione parodistica e anticipare eventi quali l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, ma ha soprattutto preso la forma di un microcosmo denso, sfaccettato e pittoresco di personaggi secondari, che al tempo della loro ideazione si disfacevano di vecchi stereotipi per crearne di nuovi, e mettere alla berlina le dinamiche di un’America che si preparava a lasciare i vecchi trucchi da ventesimo secolo della Fox, per entrare nel ventunesimo con maggiore familiarità rispetto alle proprie bruttezze.
L’alcolizzato e inaffidabile Homer non era meno mediocre come padre di famiglia di quanto non lo fosse come supervisore della sicurezza di una centrale nucleare responsabile dei disastri ambientali sul territorio. Allo stesso modo la moglie Marge incarnava alla perfezione le aspirazioni negate di migliaia di donne americane ancora sopraffatte da vecchie dinamiche patriarcali.
Le stesse dinamiche impedivano ai numerosi talenti della figlia Lisa di ricevere il riconoscimento che le spettava, mentre agevolavano lo scapestrato Bart nel passarla liscia dopo ogni nuovo atto vandalico. Intorno a loro, una Springfield animata dal suo folklore tipico: sindaci conniventi con la mala, forze dell’ordine inadatte, ottuse e compiacenti, figure religiose prive di empatia e ossessionate dal proprio status quo e, in generale, un tessuto urbano e sociale profondamente immerso in quell’eco di abbandono e di desiderio di rivalsa che separa New York da Los Angeles e si propaga attraverso cinquanta Stati.
Tuttavia, attraverso le maglie tenui di questa narrazione, nel corso degli anni sono innumerevoli i messaggi progressisti e di accettazione del prossimo che Groening e compagnia sono riusciti a indirizzare al pubblico: il tutto partendo da un ritratto di famiglia americano che doveva essere tutt’altro che edificante e costruttivo, almeno nelle intenzioni iniziali.
Il tentativo degli autori di connettere emotivamente il pubblico ai protagonisti, infatti, non solo si poté dire riuscito dopo una manciata di stagioni, ma riuscì a espandersi creando un tessuto connettivo pop che è diventato lessico famigliare di un’intera generazione, tanto da portare la tipica esclamazione di Homer (“D’oh!”) a essere inserita nell’Oxford English Dictionary.
Il desiderio di fornire in qualche modo un lieto fine, una lezione “positiva” al pubblico ogni qual volta fosse possibile, a fronte del cinismo del linguaggio e degli scenari, ha reso lo show un ponte tra l’Occidente letterario “proibito”, quello cioè che mette in discussione i suoi crismi fondamentali (famiglia, religione, Stato) e quello comunemente accettato come formativo. Solo questo basterebbe a fare dei Simpson uno dei massimi esempi di letteratura pop animata a cavallo del cambio di secolo.
L’accusa che è stata rivolta più spesso allo show nei tempi recenti è di avere perso, soprattutto nell’ultimo decennio, gran parte del suo smalto a scapito di serie che traggono palese ispirazione dai suoi schemi narrativi fondanti (Family Guy, Futurama, American Dad, lo stesso Rick e Morty).
Di sicuro ciò che si faceva parodia nei Simpson è diventato vera e propria decostruzione nei suoi “epigoni”, e non coinvolge più soltanto gli scenari fittizi degli Stati Uniti, ma nuove frontiere globali, in cui le caricature della disfunzionalità emotiva e sociale si fanno più anarchiche, in alcuni casi addirittura nichiliste, di certo più in linea con lo zeitgeist.
Si può dire perciò che Homer, Bart e co. siano invecchiati male, o piuttosto che gli scenari da loro parodizzati si siano fatti così amari e rapidi, nelle loro evoluzioni, da non riuscire più a ritrovarsi facilmente in quell’equazione che trent’anni fa si era rivelata rivoluzionaria: essa era sì scettica e controcorrente, ma col senno di poi decisamente ottimista. Questo perché i Simpson, in quanto show, avevano più di un problema con l’America in cui erano nati, ma è innegabile che, tra una sferzata e l’altra, si sforzassero anche di mostrarne un volto più conciliante.