Cannavacciuolo non ha avuto bisogno di puntare sul “cattivismo” spinto, non ha fatto volare piatti come Cracco in Hell’s Kitcken, non ha sbraitato inutilmente come l’urticante Bastianich. Piuttosto ha giocato la sua partita con empatia assoluta, avvolgendo, convincendo, spiegando, commuovendosi (come quando ha avuto il padre Andrea, anche lui chef, come ospite), regalando brividi di piacere
“La cucina in tv è morta, viva la cucina in tv!“. Nel mare magnum dei format culinari che invadono i palinsesti h24 sette su sette – quelli che da anni pontificano lo scoppio della bolla televisiva degli chef, dove sono finiti? – tra tanti programmi dimenticabilissimi, ha brillato per la goduriosa semplicità la new entry Antonino Chef Academy. Senza troppa enfasi e senza il trattamento che riserva ai suoi super eventi, Sky ha piazzato un gioiellino in cui ha dominato incontrastato il Fattore C.
C come Cannavacciuolo, che ha contemporaneamente giocato il ruolo di conduttore, regista in campo, cacciatore di talenti, insegnante generoso (ma all’occorrenza dispensatore di solenni strigliate) e preside irreprensibile della sua accademia culinaria-televisiva in cui non c’è stato spazio per i birignao da cooking show e nemmeno per i casi umani. Partiamo dal fondo, con un inevitabile spoiler. La sesta e ultima puntata, andata in onda il 17 dicembre, ha visto trionfare Davide Marzullo, 23 anni, dalla provincia di Varese con furore, che ha battuto al rush finale la brava Nicole Bartolini. Antipatico al punto giusto, competitivo, ambizioso, passionale fino all’eccesso quanto talentuoso, Marzullo era il vincitore in pectore da settimane: “Però devi limare il tuo carattere, sei troppo permaloso”, gli ha fatto notare Cannavacciuolo prima di farsi conquistare dal suo roll di carpaccio di trota, che pareva un piccolo capolavoro, e incoronarlo vincitore. A contendersi la vittoria, oltre a lui, c’erano altri dieci giovani aspiranti cuochi tra i 18 e i 23 anni, tutt’altro che bamboccioni choosy, arrivati sul set con un bagaglio formativo solido e esperienze lavorative diverse: insomma, zero spazio ai personaggi dalle storie strappalacrime, ai foodblogger in cerca d’autore, agli influencer “markettari”, alle casalinghe annoiate o agli aspiranti cuochi della domenica.
Ma se la grammatica dei cooking show c’è tutta – la dispensa a vista, i confessionali, la rivalità spinta tra i concorrenti, le tre manches, il montaggio che dà ritmo al racconto, le esterne (qui però in salsa ultra local, come la spesa al mercato di Orta) – cos’ha di diverso l’Academy di Antonino dagli altri talent culinari? Innanzitutto il premio finale, ovvero un posto di lavoro (vero) nella brigata bistellata del Villa Crespi e non il solito libro di ricette (ma poi, chi li compra, a parte i parenti primi dei vincitori?).
E questo, complice un casting impeccabile, ha sbarrato la strada al flusso di fenomeni da piccolo schermo in cerca dell’abusato quarto d’ora di celebrità. Il “chi sa fa” ha azzerato la retorica da sbadiglio del “se vuoi, puoi”, finalmente: giusto sognare, sì, ma basta con il solito bla bla bla su quanto a forza di credere in una cosa prima o poi si realizza. Messaggio semplice, diretto. E per arrivarci, Cannavacciuolo non ha avuto bisogno di puntare sul “cattivismo” spinto, non ha fatto volare piatti come Cracco in Hell’s Kitcken, non ha sbraitato inutilmente come l’urticante Bastianich. Piuttosto ha giocato la sua partita con empatia assoluta, avvolgendo, convincendo, spiegando, commuovendosi (come quando ha avuto il padre Andrea, anche lui chef, come ospite), regalando brividi di piacere: che poesia vederlo sfilettare l’orata o disossare la quaglia, e pensare che a malapena il telespettatore medio riesce a scongelare il minestrone. Cannavacciuolo non recita a comando, non indossa la maschera. “Io non sono chiatto, sono ripieno”, ironizza con i ragazzi smorzando la tensione dopo un’eliminazione.
Dopo anni da solista nelle Cucine da incubo (il vero incubo di quel programma ormai sono le repliche a oltranza!), questa volta ha “duettato” con la spalla perfetta, Simone Corbo, suo inseparabile sous chef, con cui ha formato una coppia dai tempi comici impeccabili, capaci di dare un twist al programma e destrutturarlo dalla seriosità aggressiva di certi cuochi e pasticceri, che da tempo si atteggiano a mappatori del genoma umano. Da notare poi la scelta delle guest star: non è il solito scambio di figurine di chef stellati, tendenza “ce l’ho, manca”, ma piuttosto una scelta ragionata in cui spiccano nomi blasonati ma poco pop, da Paolo Griffa (con i suoi dolci geniali) all’indiana Ritu Dalmia (molto interessante il suo potenziale televisivo), che – pensa un po’ – non si limitano a una comparsata da “signore e signori”, tanti saluti e via, ma cucinano e si sporcano le mani. Per tutto questo, insomma, Antonino Chef Academy si merita una seconda edizione.