Premessa: questo post risente di uno dei più abusati vizi del giornalista moderno, l’uso personalistico del mezzo. Scrivere di qualcosa per parlare di se stessi. Chiedo scusa, ma almeno lo sapete fin da subito, così potete evitare di leggerlo. Perché lo scrivo? Semplice: è l’ultima occasione utile. Ho provato a farlo almeno tre volte: ritiro di Cassano, ritorno di Cassano, ritiro definitivo di Cassano. Niente, non ci sono riuscito. Questione di rigore: non si parla degli affari personali. Fatti, non opinioni. Queste righe, tuttavia, sono il racconto intimo di un amore calcistico. Se le leggerete sappiate che la colpa (non il merito) è di un collega: “Hai una bella storia, ma come fai a non scriverla”. Eccola, ma già mi sono pentito di averla resa nota.
“Dai, alla fine un pareggio con l’Inter non è male. Ha segnato Hugo, Tonino ha giocato bene, resta un buon punto”. Guardo il mio vicino di Curva Nord, non sono d’accordo. Mi distraggo un attimo: “Maestro, altri due borghetti”. Pago, ne apro uno, l’odore familiare è una magra consolazione. Nello stesso momento, qualche decina di metri in basso: lancio, stop di tacco a seguire, colpo di testa, finta di corpo, dribbling, gol. Meraviglioso. I sette secondi che hanno cambiato la vita di Antonio Cassano hanno segnato anche la mia. Volo. Il caffèborghetti finisce chissà dove in compagnia dell’ennesima Marlboro rossa appena accesa, i gradini della Curva non riescono a contenere l’entusiasmo, dieci metri più in basso mi fermano la balaustra e gli abbracci di sconosciuti con le lacrime agli occhi. Dei miei amici neanche l’ombra: l’esultanza ha diviso la comitiva, l’ha sciolta nel caos di un popolo unito nel priscio. Il calendario non è casuale: è il 18 dicembre 1999, i pugliesi fuori sede tornano a casa per il Natale, c’è Bari-Inter al San Nicola, il rito pagano è la naturale vigilia della ricorrenza religiosa. E infatti lo stadio è pieno, ribollente, la curva maliarda.
Quei sette secondi sono il passaggio inconsapevole dal flirt alla storia d’amore. Cresciuto in una famiglia divisa calcisticamente tra zii juventini e interisti, avevo scelto la fede bianconera per ribellione: erano gli anni di Trapattoni e dei tedeschi, la Juve vinceva nulla e soffriva tanto. Perfetto. Perché la vittoria è più bella quando arriva dopo l’attesa. Primi sorrisi con Zoff in panca, Schillaci e Casiraghi in campo, poi pancia piena con Lippi, Baggio, Del Piero e Paulo Sousa. Ma è sazietà de relato: mi rendo conto che quella gioia è un vuoto a rendere, non mi appartiene fino in fondo. Emigrato a Roma per l’università, il “pacco da giù” resta l’unico legame con la casa del padre. Sono i mesi in cui avanza il bisogno di un senso di appartenenza vero. Quasi per caso mi ritrovo a seguire il Bari di Fascetti nelle trasferte romane: settore ospiti, quando la tessere del tifoso non era neanche in programma. Nasce qualcosa, ma ancora non lo sapevo.
Lo capisco il 18 dicembre 1999, nello stesso istante in cui la balaustra che mi separa dal vuoto rende nitido il passaggio: avevo rischiato la vita, non ero mai stato così felice allo stadio. Incoscienza pura, uno degli ingredienti della passione. Quei sette secondi di Cassano come il morso della tarantola: avevo fatto parte di una magia, avevo assaporato l’incanto del far parte di qualcosa, ero diventato tifoso del Bari. E pazienza se poi gli amici juventini mi avrebbero dato del traditore, chissenefrega se “la squadra del cuore non si cambia mai”, fa nulla che non avrei mai vinto una cippa secca: il tradimento è sempre l’abbraccio tra una voglia superiore e un disagio, seppur latente. Da allora pochi sorrisi e tante imprecazioni, la meravigliosa stagione fallimentare e tre fallimenti vergognosi, lo scandalo calcioscommesse e la Serie D. Sempre senza Cassano, ma per colpa di Cassano. Che da allora fa parte dei miei giorni, con il suo talento e le sue fesserie in campo e fuori, a prescindere dalle (tante) maglie indossate. Con le sue comparsate in tv, mai banali e sempre sopra le righe. Con il suo ripetuto rifiuto di tornare a Bari, che rispetto ma non condivido.
Perché potrai pure vivere a New York, ma resterai sempre barese. Per quel senso di appartenenza che io, pugliese ma non barese, ho scoperto di aver cercato a lungo grazie a quei sette secondi che hanno cambiato la sua vita. E in fondo anche un po’ la mia.
Ps: mia moglie e i miei figli ringraziano Antonio Cassano per le ripetute domeniche rovinate dal mio malumore post partita del Bari.