Giovedì scorso il professor Tito Boeri è intervenuto a PiazzaPulita su La7. E ha detto una cosa grossa: ha parlato della preparazione scadente che, attraverso test ed esami appositi, si riscontra fra i nostri ragazzi diplomati specie se provenienti dalle regioni del Sud. Non ho titoli specifici al riguardo ma ne sono rimasto molto colpito: anche le mie sensazioni vanno in quella direzione. Anzi, sento di poter dire qualcosa in più a proposito della cultura che ho concretamente riscontrato nel variegatissimo mondo delle nostre imprese manifatturiere.
Attenzione, lo dico subito chiaro e tondo: non è una questione di un deficit cerebrale dei nostri imprenditori. Oltre che depistante, un’argomentazione del genere sarebbe davvero ingiustamente offensiva.
Vengo da una esperienza quarantennale divisa nettamente in due tronconi: nel primo – circa vent’anni – responsabilità manageriali nel settore della meccanica, della siderurgia e della metallurgia (grandi imprese a gestione delegata); nel secondo, all’incirca un ventennio, Consulenza di Direzione Aziendale in 26 aziende che amiamo definire pmi e che io preferisco definire ‘a gestione monocentrica’.
Esiste una separazione che incide moltissimo e determina un profondo divario fra le efficienze dei due gruppi, dove per efficienza intenderei riferirmi alle capacità di fare mercato e di fare profitto: perché proprio qui sta la debolezza sostanziale del nostro sistema manifatturiero e la forte perdita di quote di mercato all’esportazione.
Non nel gap tecnologico, non nella abilità e produttività delle nostre maestranze, non nella tensione ad esportare, non nell’impegno a ricercare nuovi sbocchi: se escludiamo dall’esame la quota food e la quota fashion, le informazioni a mia disposizione mostrano due situazioni a dir poco tragiche. Se consideriamo la partecipazione del nostro sistema manifatturiero agli scambi interstatali planetari, questa è passata – dal 1984 ad oggi – da un livello 100 ad un livello 20; e se guardiamo ciò che è successo al nostro fiore all’occhiello (il made in Italy), beh, il nostro Paese è diventato, più o meno, il campione mondiale della subfornitura, che col made in Italy c’entra come i cavoli a merenda… E la si smetta di dire che è colpa dell’euro!
Al di là delle apparenze, cerchiamo di identificare i problemi del nostro manifatturiero: si tratta di una profonda differenza del livello culturale manageriale. Nelle imprese a gestione delegata (Grandi Aziende) esiste una metodologia gestionale di tutto rispetto affidata ad una cultura manageriale evoluta; nelle imprese a gestione monocentrica (pmi) non esiste nulla e la gestione è spesso affidata ad una tradizione che dire casereccia è dir poco…
Parlo onestamente con profonda cognizione di causa il grande tallone d’Achille sta nella attività commerciale, di breve e di medio periodo: esiste una ricchezza enorme di macchinari e impianti spesso sottoutilizzati, sintomo chiaro di errori grossi negli investimenti che, alla fin fine, tendono a rivelarsi spesso tesi all’inseguimento di ordini ma non nella costruzione di un ‘mercato’ adatto ma l’attività commerciale di questo troncone del manifatturiero italiana è troppo costosa e inefficiente. Basterebbe riflettere sulla perdita dell’aureola del made-in-Italy, del design italiano, dell’estro italiano per capire che disastro si è consumato.
Ma questi imprenditori sono proprio tutti bestie? Il gene della fabbrichetta è improvvisamente appassito?
Mi ha molto colpito tempo fa una similitudine fra il nostro sistema manifatturiero e una flotta militare: è come se avessimo una fortissima (come numero di natanti) flotta da guerra, dove però abbiamo pochi incrociatori, tanti cacciatorpediniere e soprattutto un nugolo enorme di Mas. Ma, ahinoi, tutto ‘sto naviglio non è organizzato in una o più flotte organiche, non ha ammiraglio o ammiragli al comando e viene scatenato verso qualsivoglia occasionale bersaglio: ma chi crediamo di poter sconfiggere?
Il problema è che queste medio-micro unità non possono vedere bene il mercato-mondo: hanno strutturalmente un raggio visivo-mondo cortissimo, occasionali e non conoscono ciò che la tecnologia aziendalistica può oggi con grande vantaggio offrire. E’ anche una questione di scuola.
Occorre far scivolare una nuova linfa culturale in questo mondo. Purtroppo questa cultura non si riesce a somministrarla attraverso pur valide e volonterose scuole ma deve essere introdotta e fatta vivere attraverso la formazione di un ‘progetto di politica manifatturiera’ non-coattivo ma orientativo: che lasci intatte le proprietà aziendali ma le indirizzi verso organizzazioni e obiettivi che solo una potente unità conoscitiva può fornire. Occorre donare il radar ai nostri Mas, io qualche idea – e anche vigorosa – ce l’avrei.
Tempo fa ne scrissi a Giuseppe De Rita, che fu del mio stesso avviso: ma il sistema è sordo, statico, tutto proteso ormai a macinare l’acqua nel mortaio. Occorre creare – ma non con la scuola – imprenditori più edotti e con visibilità più ampia di quella dei nostro vigorosi ‘sciur Brambilla’.