“Accosta un attimo”. Stiamo risalendo una strada stretta dell’entroterra romagnolo quando l’auto si ferma al margine della carreggiata. Steve McCurry scende e si avvicina a una donna anziana che cammina a passo lento appoggiata a una bici con due sacchetti appesi al manubrio.
Parlano qualche minuto, mentre da dietro il finestrino mi chiedo in che lingua comunichino e che cosa si stiano dicendo. La signora avrà capito di trovarsi davanti a uno dei più importanti fotografi della nostra epoca, quattro volte vincitore del World Press Photo, o lo avrà scambiato per un matto? McCurry tira fuori la macchina fotografica e le scatta un ritratto. Cosa ne sarà di quell’immagine? Diventerà un’immagine iconica, o sarà cancellata?
“Trovare lo scatto giusto non è solo una questione di luce o di composizione, ma è soprattutto una questione di mood. Bisogna trovare il giusto sentimento. Io cammino per la strada, mi guardo intorno e devo entrare in una sintonia con l’ambiente, quando si crea quel karma positivo allora vengono le foto”.
Ci sediamo al tavolo del ristorante di Casa Artusi a Folimpopoli. Il fotografo newyorkese è in Romagna per l’inaugurazione della mostra Cibo ai Musei San Domenico di Forlì e abbiamo deciso di andare in “pellegrinaggio” al tempio della cucina romagnola. Quale migliore modo che parlare di fotografia e cibo se non davanti a un piatto di tagliatelle? Il cuoco ci propone di portare lui le sue specialità, senza l’onere di dover scegliere dal menu.
A Steve piace l’idea, ma chiede di evitare la carne. “Ho smesso di mangiare la carne dopo aver assistito a due scene: una in un ristorante in Cina, dove sentivo dei rumori venire dalla cucina, mi sono avvicinato e ho visto che uccidevano i pesci sbattendoli contro il muro. E ho pensato: ‘Come si può essere tanto crudeli?’. Un’altra vicenda che mi ha molto colpito l’ho osservata in un ranch in Texas. C’era una mucca con il suo vitellino quando due uomini hanno preso il vitello per portarlo al macello. La mucca ha continuato per ore a girare per il recinto, su e giù, ossessivamente: lo stava cercando. Lo cercava e non lo trovava. Capivo quello che provava e questo mi ha spezzato il cuore. Credo che dovremmo avere più rispetto per la vita di un animale”.
Al tavolo con noi c’è la compagna di Steve che l’ha seguito in Italia. Si chiama Andie ed è una Hopi, ovvero una nativa americana dell’Arizona. “Quando torna da un lungo viaggio gli faccio trovare il suo piatto preferito: gli spaghetti”. “Non so cucinare – racconta Steve – ma amo provare i cibi dei luoghi in cui vado”. E di luoghi ne ha visti tanti, McCurry, che è perennemente in viaggio.
Mentre sorseggiamo un calice di Sangiovese la conversazione entra nel vivo: “Una foto è prima di tutto una storia. Non è diverso da quello che fai tu, ovvero scrivere, solo che invece che un quaderno e una penna ho una macchina fotografica. Porto con me solo l’essenziale, un obbiettivo, poco altro. Servono tre cose per fare una buona foto: place, time and skill. Bisogna essere nel posto giusto, al momento giusto e avere la destrezza di catturare un momento che non si ripeterà“.
Mi colpiscono le parole “che non si ripeterà”. La fotografia è l’arte che si avvicina di più alla memoria. Se il cinema riproduce il fluire della vita, la fotografia è fatta di istanti immobili, che ci restituiscono una emozione. Il tema della memoria torna spesso nei lavori di McCurry, ha documentato popolazioni che si stanno estinguendo, luoghi che stavano per scomparire. “La fotografia ha la capacità di mostrare cosa abbiamo in comune con gli altri esseri umani, che siano i nostri vicini o persone che abitano dall’altra parte del mondo”.
L’ultima sala della mostra Cibo è allestita come un grande tavolo a cui il pubblico può “mangiare” assieme a persone di tutto il mondo, in foto che spaziano da Cuba allo Yemen, dalla Russia all’India. “Ognuno di noi ha ricordi piacevoli legati al cibo, perché mangiare è un momento di socialità in cui siamo uno accanto all’altro, con la nostra famiglia, o con delle persone appena conosciute. Si trova più facilmente sintonia con qualcuno durante un pasto”.
Le foto di McCurry hanno un calore e un’intimità che hanno la potenza di portarti in un luogo. Da quelle immagini giungono profumi e suoni di luoghi remoti che hanno sempre, magicamente, qualcosa di familiare. Uno dei tratti caratteristici del suo lavoro sono proprio le persone. “Amo ritrarre le persone in ogni momento della vita: che siano dormendo, mangiando, lavorando. Io fotografo tutto. Non parto mai con un’idea precisa, mi lascio guidare dal momento”. Una delle sue doti è proprio quella di riuscire a entrare subito in empatia con persone appena conosciute. “A volte mi capita che la conoscenza nata da una foto poi diventi una amicizia. Con un ragazzo soldato dell’Afghanistan siamo diventati amici, lo ritrassi che era un bambino: oggi ha quaranta anni e ci siamo rivisti da poco, lo sto aiutando a creare un progetto solidale nel suo paese”.
Qualche anno fa McCurry ha ritrovato la ragazza afghana la cui foto è diventata una vera icona. “Pensavo fosse un’impresa impossibile rintracciarla dopo tanti anni, temevo fosse morta, e invece ci sono riuscito grazie alla sua maestra, che mi ha indicato dove trovarla. È sposata e ha dei figli. Non sapeva niente di quella foto e del suo successo. Vive in un piccolo villaggio dove i giornali non arrivano, non ha la televisione, per lei la ‘notorietà’ è una cosa che non ha nessuna importanza, che nel orizzonte del suo mondo non esiste e non ha nessun valore”.
Sull’utilizzo massiccio che si fa oggi della fotografia sui social, McCurry non si dimostra scettico, come molti suoi colleghi, anzi ha un’opinione positiva. “Credo sia una cosa molto positiva. La fotografia ha molti valori, non solo artistici, ma anche legati alla memoria personale. Credo sia molto bello poter documentare la crescita di un figlio o le serate con gli amici per ricordare i momenti felici. Poi ovviamente bisogna distinguere tra un selfie e una foto artistica, ma credo che la differenza sia evidente. Da quando un secolo fa le macchine fotografiche hanno iniziato a essere vendute il numero dei fotografi è sempre aumentato. Oggi ci sono molti più fotografi in gamba di quanto ho iniziato, ma credo che alla fine le foto belle trovino sempre il modo di emergere”.
Ma cosa distingue una foto che emoziona da una che non ci emoziona? McCurry preferisce non usare la parola “bellezza”: “La parola bellezza può voler dire molte cose. C’è chi pensa di fare una foto bella perché fotografa un bel soggetto, come un tramonto o un fiore. Non è così. Una foto deve avere una certa luce, un ritmo, una composizione. Volendo riassumere in una parola, più che bellezza, direi che deve avere armonia“.
Abbiamo finito la bottiglia di Sangiovese. Steve McCurry deve ripartire. Il suo è un viaggio continuo e incessante, non solo nei luoghi che attraversa, ma nell’animo umano. Ci salutiamo come vecchi amici, Andie fa un selfie in cui noi tre ci stringiamo attorno alla tavola. “Ci vediamo!” mi dice, “chissà dove…”.