Il cantautore si racconta ad Andrea Scanzi prima di iniziare il suo tour mondiale per il nuovo album "D.O.C"
Zucchero: artista vulcanico, frontman autentico, anima inquieta. E miniera vivente di aneddoti seriali. Ogni chiacchierata con lui richiederebbe trenta pagine almeno. Ha appena suonato a New York. C’era anche Springsteen.
Un evento di beneficenza organizzato dal mio amico Sting. Conoscevo Bruce, ma non ci avevo mai suonato. E’ un uomo serio e garbato, di poche parole. Dopo il concerto, mi ha detto: “Great job!”. E mi ha abbracciato. Il massimo dello slancio, per lui.
E Clapton?
Un altro amico vero. Quando suono alla Royal Albert Hall di Londra, mi presta il suo set per farmi risparmiare. Venne a vedermi in incognito nell’88 ad Agrigento, ce lo portò Lory Del Santo. A fine concerto mi dicono: “C’è Clapton”. Non ci credevo. Invece entra Eric e mi fa: “Il mondo ti deve conoscere, mi segui in tour?”. Tra noi è nata così. Lo sento con regolarità, se ne va spesso in Islanda a pescare i salmoni col leader dei Procol Harum.
Nel suo ultimo disco, D.O.C, racconta un’umanità intrisa di apparenza.
Sognavo un mondo autentico, simile alla mia infanzia. Sono cresciuto tra il sacro e il profano, studiavo l’organo in Chiesa e frequentavo i bar del PCI. Mio zio era leninista, litigava sempre col prete ma poi la domenica lo invitava a casa per non farlo stare solo. La mia era davvero la terra di Don Camillo e Peppone. Un mondo vero e genuino.
E adesso?
Accettiamo tutto, non scendiamo in piazza per niente. Sì, ora ci sono le sardine, ma devo capirle: chi sono? Chi c’è dietro? E’ presto per valutarle. Scenderei in piazza subito per l’ambiente, ma i potenti se ne fregano. Anche col Live8, ma pure col “cancella il debito” di Bono, non è cambiato un cazzo. E questa impotenza mi fa male.
Si descrive come un cane che torna a casa “a sbranare gli aquiloni”.
Da bambino fui sradicato. Seguii mio padre, che cambiò lavoro, e da Roncocesi mi trovai a Forte dei Marmi. Non mi sono mai ambientato e ne ho sofferto. Molto. Gli aquiloni sono la mia infanzia sbranata.
Lei ha un feeling particolare con Panella.
Non l’ho mai visto dal vivo. Scelta sua: dice che, se dovesse venire da me, sarebbe costretto a viaggiare in treno e vedere le bruttezze del mondo. Da decenni lavoriamo così: io gli mando le musiche con un inglese maccheronico, lui usa quel cantato come componente “pretestuale”, nel senso che per lui quello è già un pre-testo. Dopo poche ore mi manda di getto cinque versioni di testo per ogni musica. Un genio. Io ci lavoro e qua e là abbasso, perché Pasquale vola sempre alto. Di solito nelle canzoni apparentemente più leggere tocco i temi più “seri”: l’ho sempre fatto.
De Gregori, Fossati, Guccini.
Tre persone dritte, serie, senza falsità. Come piacciono a me. Anche Eric è così. A De Gregori chiesi il testo di Diamante: parlando di mia nonna, mi serviva un poeta “esterno”. Io sarei stato sicuramente retorico: le volevo troppo bene. Ci trovammo a Modena e la scrisse in due ore. Abbiamo collaborato spesso, anche in questo disco. Fossati l’ho sempre trovato bravissimo e il suo disco con Mina è una bella boccata d’ossigeno. Guccini è il mio fratellone. Sono cresciuto con lui e i Nomadi. Lo vado a trovare spesso a Pavana. Quando sua madre Rina era ancora viva, me la ricordo che mi diceva in dialetto: “Adelmo, fai qualcosa con mio figlio, è uno bravo!”. E Francesco che borbottava: “Che due maroni, mamma!”. Lui è bravissimo e lentissimo: se vuoi che scriva qualcosa, devi stargli sempre addosso.
I suoi sfoghi sono noti.
Dalle mie parti siamo così: a mandarti affanculo ci metti due secondi. Ricordo Cala di Volpe. Mi dicono che vogliono farmi un tributo e accetto. Era pure una bella “marchetta” in mezzo a un tour molto costoso, quindi ci stava bene. Salgo e mi trovo davanti una tavolata di russi che mangia. Una di loro parlava forte al telefono mentre suonavamo. Dopo un po’ le chiedo di spegnere, ma mi fa il gesto del dito medio. La Santanché mi grida che sono lì per cantare e non per parlare. Credo che accanto avesse Totò Cuffaro. Qualcuno mi grida “comunista!”. Mi è scattato il poeta dentro e son partito col “monologo del baraccone”. Loro mi tiravano i limoni, io gli lanciavo i Gatorade. Una guerra vera. Faccio per andare via, ma il manager mi dice: “Devono ancora pagare!”. Così sono risalito.
Pavarotti e Bocelli.
Luciano era un grande, ma non sapeva nulla di pop. Il primo Pavarotti and Friends volle farlo nel suo maneggio. Chiamò la BBC, ma prima di salire mi disse: “Ora faccio come voi e canto in playback, altrimenti mi sforzo la voce”. La BBC se ne accorge, non trasmette nulla e vuole fargli causa. Intanto diluviava e tutto il pubblico, convinto di andare a una serata di gala, si riempie di fango. Un disastro! Poi però è sempre stato un trionfo. Bocelli è stato un mio pallino, per lui avrei fatto di tutto in quegli anni. Sapevo che Andrea poteva tenere insieme pop e lirica. Ho pregato in ogni modo la Caselli di produrlo. Mi ha maledetto non sai quante volte, ma poi mi ha ringraziato.
A marzo partirà in un tour mondiale.
Nuova Zelanda, Australia, Stati Uniti, Europa. Dodici date all’Arena di Verona tra settembre e ottobre. Tre ore di concerto, con una band che mi conosce da anni. Cambierò la scaletta di volta in volta, ma l’ossatura resterà la stessa: prima il nuovo album per intero, poi i classici che il pubblico vuole sentire. E qualche recupero strano, che magari piace solo a me.
Qualche brano che non ha più voglia di cantare?
Non direi. Al limite Senza una donna: all’estero devo farla per forza, è la più nota. La canto così tanto che, tutto sommato, nelle date italiane posso farne anche a meno.
All’inizio sul palco era dura?
Al Live in Kremlin ebbi un attacco di panico tremendo prima di salire. Durante i primi cinque brani guardavo la band per nascondermi e il pubblico non applaudiva mai. Gli avevano detto di farlo solo alla fine, come ai concerti di classica, ma questo lo scoprii dopo. Ero convinto di fargli proprio schifo. Ed ero pure in Eurovisione. Per il tributo a Freddie Mercury anche peggio. Sudavo freddo. Nel camerino accanto c’erano Annie Lennox e David Bowie, che fumava sempre. Leggo: “5 minutes Zucchero”. Penso: “Sto andando al patibolo”. Dovevo cominciare il brano con una chitarra, ma sul palco la chitarra non c’era. Tutta Wembley che mi guarda fallire: la fine. Guardo con aria atterrita Brain May. Lui per fortuna capisce, parte con la chitarra. E mi salva.
Oggi lei ha tutto. O così sembra.
Faccio quello che sognavo, ma dal ‘90 al 93’ ho visto l’inferno. Il successo mi destabilizzò. Ero a un passo dall’inabissarmi per sempre. Mi sentivo inadeguato, mi domandavo perché Miles Davis e Joe Cocker perdessero mai tempo con uno come me. Non la auguro a nessuno quella depressione lì.
Ha mai pensato di andare ad abitare all’estero?
Mai. Potrei anche adesso: Los Angeles, per dirne una. Ma non posso non stare a Roncocesi, nel mio mondo e fuori dal mondo. Devo però ammettere che in nessun altro paese come l’Italia vedo questa rassegnazione, questo spegnimento: questo fermarsi all’apparenza. Com’è che diceva Gaber? Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono.