“La gravità dei reati commessi da Brusca e la caratura criminale che lo stesso ha dimostrato nella sua vita di possedere” portano “a considerare non ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento“. Sono queste le motivazioni con cui la prima sezione penale della Cassazione ha respinto con la sentenza dello scorso 7 ottobre la richiesta di domiciliari al collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, che sconta a Rebibbia 30 anni di carcere, con fine pena nel 2022, per la strage di Capaci e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il 12enne sciolto nell’acido. Per la concessione dei domiciliari, spiega la Cassazione, è necessario un “compiuto ravvedimento” e il “pentimento civile” va approfondito e verificato nel tempo.
Dna e Dda di Palermo avevano espresso parere favorevole e gli operatori gli riconoscono un percorso di revisione critica. Brusca inoltre ha già usufruito di 80 permessi premio: elementi, assieme al suo “apporto collaborativo molto rilevante”, valutati positivamente dal tribunale di sorveglianza di Roma, che però nel marzo scorso ha respinto l’istanza – sottolineando che “non ha ancora percorso davvero il cammino dell’emenda nei confronti delle vittime, del riscatto morale nei riguardo dei familiari”, trovando così d’accordo la Suprema Corte.
Secondo la Cassazione, il tribunale di sorveglianza ha correttamente dedotto l’insussistenza della prova di “un effettivo compiuto ravvedimento”, un percorso “attualmente solo intrapreso”. Ha compiuto una interpretazione conforme alla giurisprudenza dove sostiene che “lo sforzo di Brusca nel manifestare il suo pentimento civile e il suo intento di riconciliazione nei confronti delle famiglie delle vittime e della società tutta vadano approfonditi e verificati nel corso del tempo”.