di Maurizio Donini

Il Mes è diventato il tema centrale della politica italiana negli ultimi tempi: in mancanza di cose più interessanti su cui discutere, anche un tema ad alta carica tecnica può servire a tenere alta la tensione tra maggioranza e opposizione. In verità, il tema è stato abbracciato anche dal socio di maggioranza del governo giallo-rosa: la voce di Luigi Di Maio si è unita a quelle del duo Salvini-Meloni nell’opporsi a questo strumento. Purtroppo tutti e tre i soggetti in questione hanno dimostrato poca dimestichezza e tanta ignoranza nell’affrontare l’argomento.

Proviamo a fare un poco di chiarezza usando termini quanto più possibilmente semplici: Mes sta per Meccanismo europeo di stabilità, serve ad assicurare un corretto rapporto tra Pil e debito pubblico, fissato al 60%, e quindi a evitare crisi da eccesso di spesa pubblica. Esiste dal 2012 e la sua esistenza non è in discussione, con buona pace dei sovranisti moderni. Quello che è attualmente all’esame delle cancellerie europee è una serie di modifiche volte ad ampliare la possibilità di intervento del Fondo e se ne parla dal 2017, senza particolari critiche finora.

Il Mes funziona da salvagente per i paesi in difficoltà attraverso la dotazione di un fondo di 650 miliardi che, previa richiesta da parte dello stato a rischio default, verrà utilizzato per prestiti a tasso d’interesse e acquisto di titoli di stato sul mercato.

A scanso di equivoci, non c’è nessuna troika che arriva di forza e si prende il paese: per la richiesta di accesso al fondo serve un voto parlamentare. Che una volta attivata la procedura il prestante voglia avere assicurazioni sull’uso dei soldi è lapalissiano; dareste i vostri soldi a occhi chiusi a uno che ha fatto fallire la propria azienda?

Ora smontiamo tutte le sciocchezze dette sulle modifiche al Mes, iniziando dalla storia che serva a salvare le banche tedesche. Nella nuova accezione, il Mes interviene in caso di crisi bancaria qualora il Fondo risoluzione unico delle banche (Srf), finanziato dalle banche e non dagli stati, si riveli insufficiente.

Il meccanismo interessa tutte le banche e non solo quelle tedesche. E le banche italiane non sono certo messe molto bene, vedasi l’ultimo caso del buco da un miliardo di euro relativo alla Banca Popolare di Bari. Se poi qualcuno vuole ripetere la tragica esperienza Lehman Brothers, dovrebbe dirlo a chiare lettere: i risultati sono ancora freschi nella memoria di tutti.

L’altra modifica al Mes riguarda il debito sovrano: un paese in grave crisi di liquidità, e quindi con problemi di accesso al credito sul mercato, potrebbe accedere al Mes previa analisi per la ristrutturazione del debito. L’automatismo della ristrutturazione viene deciso con la maggioranza qualificata dell’85% del capitale: l’Italia, avendo il 17,7%, potrà sempre porre il veto.

Ultima novità è l’introduzione di linee di credito precauzionali più efficaci, ovvero utilizzabili in caso un Paese venga colpito da uno shock economico e voglia evitare di finire sotto stress sui mercati. I titoli emessi dal 2022 dovranno essere accompagnati da questa clausola che introduce il voto a maggioranza unica in luogo del doppio voto.

Falso che l’Italia venga depauperata in maniera insostenibile dal finanziamento del fondo: i soldi versati da Roma al Mes sono poco più di 14 miliardi; gli ulteriori 125 miliardi di cui si parla sono semplicemente possibili impegni di spesa, che non sono mai stati richiesti nemmeno durante la grande crisi finanziaria.

La Germania è il primo contributore netto, con quasi 22 miliardi di euro di capitale versato (quasi il 27% del totale), seguita dalla Francia (quasi 20,3%). Giova ricordare che il Mes serve ad assicurare stabilità alla moneta unica e bassi tassi di interesse: attributi di particolare interesse per un paese ad altissimo debito come il nostro.

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