Il pacchetto di rendite e privilegi destinati alle compagnie che trivellano mari e territori italiani si traduce in 474 milioni di euro di mancate entrate per lo Stato, Regioni e Comuni. Chi estrae petrolio e gas continua ad essere agevolato attraverso un sistema di royalties inadeguato, canoni troppo bassi rispetto a quelli europei e prevedendo anche la possibilità di dedurre le royalties dall’imponibile regionale (fino a un massimo del 3%). È quanto denuncia Legambiente con il suo nuovo report Tutti i sussidi alle trivellazioni presentato alla vigilia dell’arrivo alla Camera della Legge di Bilancio, nel giorno in cui i giovani tornano in piazza per scioperare per il clima, delusi dall’esito della COP25 di Madrid. Troppo pochi, per l’associazione, i passi in avanti sul fronte dei tagli al settore cui nel 2018 sono arrivati 18,8 miliardi di euro, tra sussidi diretti e indiretti.
L’ATTACCO ALLA MANOVRA – Legambiente attacca la manovra che approderà alla Camera e la scelta di far scomparire dal testo iniziale il totale taglio alle esenzioni dal pagamento delle royalties, sostituito con esenzioni a partire dal 2020 di cui beneficeranno le soli concessioni gas con una produzione annuale fino a 10 milioni di smc (metri cubi sterili) per quello estratto in terra ferma e 30 milioni di smc per quello estratto in mare. Pari rispettivamente al 12,7% del totale estratto per le prime e all’1,4% del totale estratto per le seconde. E per il settore petrolio la limitazione delle esenzioni varrebbe per soli tre anni. Una scelta alla quale si aggiunge, commenta l’associazione ambientalista, “il lieve innalzamento del costo dei canoni inserito nel Decreto Semplificazioni”.
AZIENDE E TITOLI MINERARI – Dal dossier emerge che nel nostro Paese sono 18 le aziende che producono idrocarburi, in grado di soddisfare un percentuale minima dei consumi interni lordi Italia. Parliamo di un contributo rispetto ai consumi interni lordi italiani pari a 2,6% per il gas e al 2,4% per il petrolio. Tra le aziende protagoniste in Italia in tema di estrazioni, c’è senz’altro Eni. Non solo per produzioni, ma anche per numero di pozzi (437 pozzi eroganti, il 57,5% di quelli in uso nel 2018) e per gettito di royalties. Ma anche in termini di vantaggi ottenuti dal sistema di royalties, 47 milioni di euro solo di esenzioni circa l’anno fino ad oggi. Per quanto riguarda il portafoglio dei titoli minerari, al 30 settembre 2019 in Italia sono 270 per la ricerca e coltivazione di idrocarburi, estesi complessivamente, tra mare e terra, per oltre 42mila chilometri quadrati, un’estensione pari a circa due volte la Regione Toscana. Attività che coinvolgono, tra permessi di ricerca ed estrazioni, 15 regioni italiane. Le più interessate sono Emilia-Romagna e Basilicata, seguite da Sicilia e Abruzzo. I titoli minerari marini, invece, riguardano il Mar Adriatico, dall’Emilia Romagna alla Puglia, il Mar Ionio e il Mar di Sicilia, per un’area coinvolta di oltre 18.657 chilometri quadrati, pari alla regione Veneto. Dai titoli minerari soggetti a concessione di coltivazione nel 2018 sono stati estratti 5,55 miliardi di smc di gas fossile, a cui si aggiungono 4,67 miliardi di chili di olio greggio (di cui 4,13 miliardi da estrazioni su terraferma) e 10,8 milioni di chili di gasolina. “Un bottino magro – si spiega nel rapporto – se consideriamo che il gas nostrano, tra mare e terra, nel 2018 ha coperto il 7,49% del consumo di gas complessivo italiano e solo il 2,6% del consumo interno lordo”. Non differiscono molto le percentuali che coinvolgono il petrolio, che contribuisce con il 7,16% dei consumi complessivi di petrolio e con il 2,46% sul consumo interno lordo italiano.
LE ROYALTIES, COSA AVVIENE ALTROVE – Sul fronte dei sussidi, sono quattro le criticità. La maggiore riguarda le royalties, pari al 10% per le estrazioni in terra ferma e del 7% per quelle in mare. Negli altri Paesi Europei, dove generalmente le royalties sono associate alla quantità di idrocarburi estratti, possono arrivare al 22% in Austria, al 25% in Bulgaria, al 30% in Ungheria e al 40% in Irlanda. Oppure si prevedono sistemi diversi di tassazione come accade in Norvegia con la Speciale Tassa sul Petrolio che vale il 54% della produzione. Per questo Legambiente propone di portarle almeno al 20%, non solo per spingere gli obiettivi di decarbonizzazione, ma anche per valorizzare le risorse estratte nei nostri mari e nei nostri territori. “In questo modo – scrive Legambiente – nel 2019 in base alla produzione del 2018, ci saremmo ritrovati invece che con un gettito di 188,1 milioni di euro circa, con uno da 442 milioni”.
DEDUCIBILITÀ ED ESENZIONI – La seconda criticità riguarda la deducibilità delle royalties. Malgrado siano così basse e convenienti, le compagnie petrolifere hanno anche la possibilità di dedurle dall’imponibile fino ad un massimo del 3%. Un tema su cui è difficile trovare dati e numeri trasparenti. L’unica informazione rintracciabile sono i 340mila euro del 2015 e nel 2014, per la sola Sicilia, una riduzione complessiva del gettito del 29,5% rispetto all’anno precedente, nonostante un aumento delle estrazioni. Secondo le stime dell’associazione ambientalista mancano all’appello 5,86 milioni di euro di risorse per le Regioni e i Comuni coinvolti nelle estrazioni. Altra questione non del tutto risolta, anche se passasse la nuova proposta inserita nella Legge di Bilancio, è quella legata alle esenzioni del pagamento delle royalties, che riguarda ancora una percentuale significativa di gas, pari al 13% circa di quello estratto tra mare e terraferma. Consegnando ancora una volta, secondo Legambiente, parte dei vantaggi economici a grandi aziende come Eni ed Edison.
I CANONI – Infine c’è la questione dei canoni. Anche se il precedente esecutivo Lega-5 Stelle ha provveduto nel Decreto Semplificazioni, ad aumentarli di 25 volte, resta il fatto che se paragonati a quelli degli altri Paesi rimangono bassi. Per questo l’associazione chiede di aggiornarli “con cifre più̀ adeguate, seguendo ad esempio quelli degli altri Paesi europei” come Danimarca, dove i permessi di ricerca si pagano 3.300 euro a chilometro quadrato e Norvegia dove, invece, il costo è di 8.150 euro l’anno per chilometro quadrato per la ricerca e di 13.620 euro per la coltivazione.