Nei giorni scorsi in Spagna ha avuto grande eco la notizia del sorpasso economico di Madrid su Barcellona. Gli ultimi dati dell’Istituto Nazionale di Statistica certificano che la capitale, con la sua regione (la Comunidad de Madrid), produce, seppur di poco, più Pil della Catalogna. In termini economici i due principali centri mettono insieme il 38% dell’intero prodotto interno spagnolo, confermando una tendenza alla polarizzazione intorno ai grandi agglomerati urbani.
È la seconda volta che succede: la capitale registrò una crescita maggiore della città costiera nelle fasi successive alla crisi finanziaria targata “Lehman Brothers”. Poco dopo gli indici tornarono ai valori sino ad allora consolidati: la regione catalana riprese la sua corsa, spinta da esportazioni e turismo, dando smalto alla icona che da sempre la rappresenta come motore economico del paese.
Non è più così, e viene da chiedersi perché nuovi dati condannino ora Barcellona. Il recente rapporto European Attractiveness Survey dello studio britannico Ernst&Young chiarisce molte cose: Madrid ha saputo attrarre capitali stranieri. Già nei primi mesi del 2019 si sono concentrati nella regione il 75,7% degli interi investimenti stranieri (dei quali il 41% proviene dal Lussemburgo, circa il 23% dal Regno Unito, con i servizi finanziari a farla da padrone).
Barcellona invece arretra: solo nel 2016 si collocava al quinto posto del ranking tra le città europee con maggiore capacità di attrazione delle risorse straniere, ma dopo appena quattro anni è scivolata al nono posto, superata di una posizione in questa speciale classifica dalla ‘rivale’ Madrid. Non occorre essere sofisticati analisti per attribuire – almeno in parte – la caduta (economica) della capitale catalana alle incertezze istituzionali e politiche. Non è un caso che, secondo rilevazioni internazionali, a pagare il prezzo più alto delle turbolenze europee di questi tempi siano Londra e Barcellona, entrambe risucchiate da forze disgregatrici ma con anticorpi ancora forti per preservare il profilo internazionale conquistato nel corso degli anni.
I piani strategici delle multinazionali insegnano che le grandi imprese apprezzano più di ogni altra cosa la stabilità, condizione che invero è mancata alle due città spagnole. Madrid si è trovata ingessata nei suoi palazzi del potere: dal 2015 sono stati vissuti quasi 520 giorni senza un governo, quindi senza una guida in grado di presentare disegni di legge o di approvare una Legge finanziaria. Barcellona è piombata in una stagione buia, in un clima dominato da risentimenti sociali e divisioni. Con i secessionisti, ringalluzziti dalla sentenza della Corte Europea di Giustizia favorevole al leader Oriol Junqueras sulla questione dell’immunità da parlamentare europeo, pronti a giocare la carta di un nuovo referendum, stavolta senza una immediata dichiarazione unilaterale di indipendenza.
È l’eterno derby tra Madrid e Barcellona, con la prima – città dei servizi per eccellenza – che si gode il primato provvisorio in campo economico. La giovane presidente della Comunidad, la conservatrice Isabel Díaz Ayuso, ha attribuito i risultati favorevoli alle politiche neoliberiste praticate, basate essenzialmente su una incisiva riduzione delle imposte locali. E con la seconda – città propriamente turistica ma storicamente dotata di un articolato apparato industriale – che si lecca le ferite.
Il presidente della potente Camera di commercio, Joan Canadell, pochi giorni fa ha riconosciuto che il livello di infrastrutture catalane è al di sotto della media europea. Sarebbero le disuguaglianze fiscali e gli investimenti statali, prevalenti nella vecchia Castiglia, a giustificare il gap, secondo il presidente della Camera. Che non ha dimenticato di raccomandare ai partiti catalani (in particolare a Esquerra Republicana di Junqueras) di subordinare il prospettato appoggio al costruendo governo di coalizione del socialista Pedro Sánchez al trasferimento in Catalogna di 45 miliardi da investire in infrastrutture.
Sembra di rivivere i tempi del così chiamato ‘Patto del Majestic’, siglato nella metà degli anni 90 da Jordi Pujol, vecchio leader di Convergència i Unió capace di trarre massimo profitto dai pochi scanni occupati dai nazionalisti al Congresso. I suoi voti furono decisivi per il lasciapassare al primo governo del conservatore Aznar il quale si impegnò, in virtù dell’accordo, a staccare un cospicuo assegno di milioni di pesetas a favore della Generalitat, versamento accompagnato dal trasferimento alla regione autonoma delle competenze sulla circolazione stradale. Corsi e ricorsi della storia.