Immaginate di piantare un albero, di innaffiarlo e curarlo per anni. Di spendere centinaia di migliaia di euro affinché metta radici e porti frutto. E poi, quando arriva il momento di raccogliere i frutti, lo abbattete, o lo piantate nell’orto del vicino che si mangerà tutte le vostre mele. «Il problema più grave è che lo Stato spende 400mila euro per ciascuno di noi – spiega Giovanni Mori del gruppo Valorizzazione italiana del PhD (V.I.Ph.D) . È un sistema che prepara ancora bene, e poi non coglie i frutti». Secondo lo Skills Strategy Diagnostic Report dell’Ocse, nel nostro Paese c’è un bassissimo premio per il capitale umano: significa che agli anni di studio non corrisponde poi un adeguato riconoscimento né sulla carta né in busta paga. In parole povere: oggi non c’è alcun ritorno economico nell’aver conseguito un dottorato.
Il V.I.Ph.D è un gruppo nato a maggio, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato le richieste dei dottori di ricerca sull’equiparazione tra dottorato e abilitazione all’insegnamento scolastico. Oggi raccoglie circa 15mila persone in tutt’Italia e ha come obiettivo principale la valorizzazione del titolo di PhD nella scuola e nella pubblica amministrazione. Il PhD (sigla inglese che sta per Philosophiae Doctor) è il titolo di studio più alto nel sistema italiano, allineato in tutto il mondo, e riceve il minimo riconoscimento. Un percorso di studio che dura almeno tre anni, successivo alla laurea. Viene guidato da un tutor, si accede con un concorso pubblico e che si conclude con una tesi di dottorato. Secondo l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca (Adi) in 10 anni i posti banditi per il dottorato sono crollati: erano 15832 del 2007 e 8960 lo scorso anno, diminuendo di quasi la metà (-43%). Ma quindi, a cosa serve fare il dottorato in Italia? «In Italia conduce troppo spesso alla disoccupazione – risponde con amarezza Giovanni Mori – solo il 10% viene integrato in università in maniera stabile».
Chi riesce a entrare negli atenei lo fa quasi sempre da precario, con contratti da assegnista o per singoli insegnamenti a contratto pagati poco più di duemila euro l’anno. Nessuna sorpresa quindi che il 20% di chi possiede questo titolo decida fare i bagagli e tentar fortuna all’estero: «I cervelli in fuga sono prevalentemente dottori di ricerca, e gli atenei stranieri sono ben felici di trovarsi personale già formato di alto livello senza aver speso niente». L’altro paradosso, spiega Giovanni è quello legato all’insegnamento: «I PhD possono abilitare i futuri docenti, nei Tfa, nei Pas e nei corsi del For24, con contratti di poche centinaia di euro all’anno, ma non sono considerati a loro volta abilitati a insegnare nelle scuole primarie e secondarie. Come se l’esaminatore della scuola guida non avesse la patente».
A ottobre, a margine della presentazione del “Patto per la ricerca” a Montecitorio il ministro Fioramonti aveva esplicitamente fatto riferimento ai dottori di ricerca, e al capitale – economico e sociale – perso con la fuga dei cervelli. «Avevamo riposto molte speranze nel Ministro Fioramonti, in quanto anche lui “cervello in fuga” e dottore di ricerca, ma fino ad oggi non siamo riusciti a contattarlo e non capiamo perché» raccontano i membri del direttivo, Claudio Brancaleoni, Silvia Crupano, Sergio Martellucci e Serena Modena. «Presto però incontreremo la segretaria del sottosegretario all’istruzione De Cristofaro, per presentarle le nostre istanze e le nostre proposte per la valorizzazione del nostro titolo nella scuola, dove possiamo portare nuove e avanzate competenze». Recentemente Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) ha proposto un emendamento al decreto sul reclutamento dei docenti in cui si chiede di inserire i dottori di ricerca che possiedono i 24cfu all’interno del concorso straordinario. Le richieste del comitato ViPhd alla politica sono chiare: «Risolvere il paradosso che non ci permette di insegnare e di ottenere l’accesso a un percorso abilitante. E poi il fatto che per un corso universitario di 30 ore o 200 ore, come docenti a contratto, veniamo pagati con un rimborso spese di 800 euro, massimo 2000 euro annui».
Il comitato ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per denunciare l’esclusione dal decreto scuola che ha avuto l’ok del Senato, diventando legge. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, recita l’articolo 1 della nostra Costituzione. Facciamo perciò appello alla sua sensibilità – si legge nel testo – in quanto garante privilegiato della Costituzione per fermare questa inaccettabile condizione di discriminazione che umilia e offende migliaia di Dottori di Ricerca italiani”.
Fuori dalle mura dell’università, il Phd è un peso più che un merito, è “sovraistruzione pura”. L’overeducation è il termine tecnico per indicare il ritornello che molti dottori si sentono ripetere ai colloqui: «Lei è troppo qualificato per questo lavoro». Specializzarsi in un campo e lavorare in un altro, dove il dottorato non serve a nulla: è il fenomeno del mismatch, il disallineamento di competenze. «Che è un altro modo di buttare via 400mila euro» commenta Giovanni. «Io sono dottore di ricerca in antropologia musicale e lavoro in un museo, dove il dottorato nemmeno mi serve. Anzi, quasi ho dovuto fingere di non averlo per ottenere il posto». Come la famosa scena del film Smetto quando voglio, in cui un dottore di ricerca per farsi assumere da un benzinaio finge di non aver studiato. Tradito da un termine troppo forbito, si scusa «L’università? Un errore di gioventù». Solo che qui è tutto vero.