Nibras Asfa, “sardina col velo”, parla dal palco di San Giovanni contro il razzismo di Meloni e Salvini. Puntuale l’aggressione della destra. Inaspettato un intervento di Paolo Flores D’Arcais che rafforza quel frame islamofobo che gran parte dell’opinione pubblica costruisce da anni – anche per ignoranza – per cui Islam uguale terrorismo. Così una immagine plastica di ‘Islam positivo’ viene infangata.
Nibras Asfa indossa il hijab, quando sale sul palco di San Giovanni, a Roma – le critiche al movimento vengono qui tralasciate in toto – e da lì rivendica la sua fede musulmana, le sue origini palestinesi, la sua ‘italianità’. E cioè ‘gioca’ la sua identità contro quella di Giorgia Meloni, facendo il verso al famoso video “io sono Giorgia”, di cui mostra la falsa retorica: l’identità italiana che propone Meloni è un bastone per escludere le altre – i musulmani sono un esempio plastico.
Arrivano gli insulti – “Musulmana sei figlia di cani terroristi” – e le minacce – “Cammellara ricordati che sei un’ospite”, mentre altri commenti riassumono l’idea, come questo: “Nessuno dovrebbe prendere lezioni di democrazia e sulla Costituzione da una sardina col turbante. Codesta prima di parlare al popolo italiano di diritti pensi alla sua gente che costringe le donne ad indossare velo o il burqa.”
Ed ecco la tesi Paolo Flores D’Arcais: il velo è un “simbolo d’oppressione”, della religione sulla legge e dell’uomo sulla donna, e poiché le sardine hanno come riferimento la Costituzione, tra i cui valori “ci sono l’eguaglianza delle donne con gli uomini e la laicità delle istituzioni” – cita qui anche il Corano – e “non possono “affidare questo messaggio a una donna che indossi il velo islamico.”
La giovane esercita un diritto garantito dalla Costituzione all’art. 19, per cui ciascuno è libero di “professare liberamente la propria fede religiosa”, una sorta di “corollario” della libertà di coscienza. A caldo, Donatella Solima, che si occupa di Islam e femminismo, ribatte “Nibras non è un velo”, mentre Sabri Ben Rommane, che giudica “deumanizzante” l’articolo di Flores D’Arcais, articola la critica sulla lettura che il direttore di MicroMega ha dato del Corano (entrambi su La Luce, diretta da Davide Piccardo, a capo del Coordinamento delle Associazioni Islamiche di Milano).
Al di là delle critiche, si sottolinei un dato spesso trascurato/ignorato: l’Islam è una religione cosiddetta “orizzontale”, non ha un “rappresentante”, di contro alla Chiesa cattolica, che è gerarchica, per cui se si vuol sapere “che dice” si sa a chi chiedere. Invece, come scrive lo storico Franco Cardini, una delle poche autorità italiane in materia: “l’Islam è una realtà immensa, quasi un miliardo e mezzo di persone, che non conosce istituzioni religioso-giuridiche normative (cioè vere e proprie “Chiese”) universalmente e concordemente tali considerate, ma che si organizza come un insieme di gruppi, sodalizi, scuole giuridiche, organizzazioni caritative, sette mistico-religiose ecc.; esso non ha né un centro né un possibile profilo gerarchico al suo interno.”
E dall’11 settembre 2001 a oggi, da quando l’attentato alle Torri Gemelle ingenera paranoia, l’unica chiave di lettura dell’Islam offerta dall’opinione pubblica, e strumentalizzata dalla politica, è stata di religione di morte – i musulmani fanatici, retrogradi e violenti, una “minaccia” per i valori e i modi di vita occidentali – “vogliono imporci il velo”, appunto.
MicroMega ospita poi, oltre una replica al direttore, la lettera di una donna iraniana che si dice ferita da quella presenza sul palco (molto ripresa dalla stampa di destra), ma per aprire lo sguardo verso altre figure di Islam, uno switch veloce verso gli Stati Uniti.
“Per me, il hijab significa potere, liberazione, bellezza e resistenza.” Così Ilhan Omar, alto profilo democratico del Congresso statunitense – la prima donna musulmana a infrangere il divieto, dopo 181 anni, di entrare nel tempio politico Usa a capo coperto. “My choice”, titolava il Guardian.
To me, the hijab means power, liberation, beauty, and resistance. https://t.co/mOF2wSZ1Gu
— Ilhan Omar (@IlhanMN) March 29, 2019
Alla domanda “Perché indossa il hijab?” (che dà il titolo al servizio, “Why I wear a hijab”), Omar osserva prima che “nel Congresso siamo in due, una lo indossa l’altra no” – Rashida Tlaib, anche lei della sinistra democratica. Omar ricorda che stava male quando vedeva “spogliarsi della propria identità i membri della sua comunità per mitigare la paura e la violenza che provavano (riferito alla Somalia, dove è cresciuta)”. Ad ogni modo, il hijab “è stata una scelta che ho fatto per dare una rappresentazione visuale della mia fede: mostrarsi come musulmano visibile” per far sì “che le persone potessero cominciare a fare associazioni positive con i musulmani.”
Testimonia un clima di paura Linda Sarsour, attivista, leader di The Women’s March, tra le prime 100 persone più influenti degli Stati Uniti secondo Time. Sarsour racconta “come il peggior giorno della mia vita sia stato quello dei risultati elettorali: ‘il telefono squillava in continuazione… e vidi che mio figlio era molto spaventato. ‘Che hai?’, gli chiesi, ‘perché sei così turbato?’ (…) si mise a piangere, credeva che ci sarebbero venuti a prendere per portarci via.” Per Sarsour, che lo sceglie come simbolo d’orgoglio, di contro alle sue quattro sorelle, che hanno scelto di non portarlo, l’islamofobia è il vero punto.
Come replica a Masih Alinejad, musulmana iraniana, anche lei femminista, ma contraria al velo: “Negli Stati Uniti ci attaccano in quanto donne musulmane, dicendo che indossando l’hijab continuiamo a sostenere un sistema di oppressione. Quindi esiste una narrativa che dobbiamo combattere dichiarando il nostro sostegno alle donne che scelgono di non indossare l’hijab, e io dirò molto chiaramente che sto con l’intrepida e coraggiosa donna che, in Iran, si oppone all’obbligo di indossarlo. Hanno però anche bisogno di noi per costruire una narrativa che dica che anche voi sostenete il mio diritto, in quanto donna musulmana in America, di resistere all’islamofobia.”
L’islamofobia in Italia è forte. I musulmani sono “anche sui pianerottoli di casa nostra, pronti a sgozzare e uccidere”, perché l’Islam è “pericoloso”, “non è una religione come le altre e non va trattato come le altre religioni.” Le parole di Matteo Salvini a ridosso dell’attentato francese hanno marchiato, di nuovo, a fuoco. Ma tante volte parole incendiarie hanno stigmatizzato l’Islam. Quando Nibras Asfa diceva che se “mi viene chiesto di intervenire su qualcosa è sempre per parlare di terrorismo, per condannare gli attentati, per dissociarci” (Corriere della Sera, 2017), esprime questo esser visti come minaccia. Ma a Roma Nibras Asfa ha offerto una “visualità” dell’Islam – per riprender le parole di Omar – “positivo”: antirazzista, ironica, femminista. E la piazza l’ha abbracciata, probabilmente il momento culturale più intenso offerto dal flash mob fino a oggi.