“Le arance sono già sulla nostra tavola e siamo decisi a mangiarle. Per il continente è meglio aspettare, perché i maccheroni non sono ancora cotti”. Così scrive Camillo Benso conte di Cavour, il 26 luglio 1860, a occupazione della Sicilia terminata, in una lettera indirizzata all’ambasciatore del Piemonte a Parigi. Il 7 settembre Garibaldi, entrato a Napoli, scrive a Cavour: “I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo”. È stato rilevato come l’utilizzo di questa peculiare terminologia gastronomica declinata in campo militare da parte di due attori principali del processo di unificazione italiana si presti a una doppia interpretazione. Registro bellicoso, espressione della pulsione e della progettualità di conquista e di annessione di Casa Savoia, oppure, e forse più probabilmente, linguaggio da attribuire alla volontà di rispettare le diversità regionali, le specificità delle culture locali, all’interno di un progetto più ampio in cui il Piemonte intendeva proporsi in qualità di garante.
Poiché il cibo riveste sempre delle connotazioni culturali, ed è capace di essere un segno di appartenenza, a una comunità, a un ceto sociale, a una nazione, mangiare maccheroni e arance poteva icasticamente stare a significare il desiderio delle elites politiche piemontesi di legarsi al resto d’Italia mostrando di essere disponibili ad arricchire, e quindi a modificare, alcuni dei propri tratti identitari. Mangiare maccheroni e arance come simbolo e, potenzialmente, gesto di apertura verso i “popoli” che sarebbero entrati a far parte del nuovo stato italiano. Per Franco La Cecla, con l’unificazione dell’Italia e con il successivo progetto di costruzione degli italiani veniva attivata una rivoluzione dell’immaginario gastronomico che “tira più a Nord la coperta mediterranea, di cui i maccheroni sono una parte essenziale”. Ovvero, il Nord, almeno a tavola, veniva spinto nell’autorappresentazione culturale e in parte nella pratica, più a Sud. Così facendo le due estremità dello stivale tendevano ad avvicinarsi.
Se la Sicilia poteva essere associata alle arance, Napoli, e per sineddoche il Regno borbonico e, quindi, il Sud, poteva identificarsi nella pasta. Napoli è il luogo genetico, non in cui la ricetta della pasta fu inventata, prodotta industrialmente o assaggiata per la prima volta in Italia, ma dell’intreccio tra l’utilizzo di questo alimento e la caratterizzazione culturale e identitaria, che dal locale e dal Meridione si sarebbe propagata a livello nazionale (e internazionale) come chiaro segno di italianità. Nella Napoli dell’Ottocento, i maccheroni non solo erano diventati l’alimento base della popolazione urbana, estendendosi al regime alimentare diffuso delle classi popolari, ma erano entrati nell’immaginario collettivo come elemento di identificazione con la città. Fuori dall’Italia, in paesi come la “Francia, la Spagna e la Grecia dove la pasta tra XVI e XVII secolo pur costituiva una presenza alimentare non molto inferiore a quella delle regioni italiane”, e in Italia, come a “Genova, che fino al XVI secolo era il centro nevralgico della produzione della pasta in Italia”, questa sovrapposizione tra storia materiale e storia mentale fece difetto.
Al successo della pasta a Napoli e nel Sud, avevano certo contribuito dinamiche globali, come le ricadute della rivoluzione agricola, l’estensione e l’intensificazione della produzione cerealicola connessi all’aumento demografico decollato nell’Ottocento. E dinamiche infraregionali, come le contraddizioni e i limiti della politica annonaria del governo spagnolo che aveva favorito, a dispetto degli intenti, la rarefazione dei grani da panificazione, rendendo con il tempo la pasta da surrogato del pane, alimento base dell’intera popolazione.
Il mito degli italiani mangiamaccheroni non sarebbe tuttavia divenuto così pregnante senza l’incontro con l’altro, al di fuori dei confini nazionali. La grande diaspora alimentata prima da settentrionali dopo l’Unità, poi massicciamente da meridionali fino al primo decennio del Novecento, ha portato con sé in America del Nord, in America del Sud, in Sud Africa e in Africa del Nord, in Australia, in Francia, in Belgio le abitudini alimentari degli italiani. Il consumo della pasta diventò così l’emblema, l’epiteto, e il dileggio, che i paesi di accoglienza incollarono, e per sempre, agli italiani. “Macaroni furono detti gli italiani in America, Spaghettì, con l’accento sulla ì, furono detti in Francia. Ma questo stereotipo funzionò come collante interno. Il sogno della pasta – tale era rimasto per molti italiani costretti a lasciare il proprio paese – trovò oltralpe e soprattutto in America più facile realizzazione: con il lavoro arrivavano nelle famiglie maggiori risorse e cresceva la possibilità di accedere al mercato della pasta”. Prima di diventare un cibo globale, la pasta come segno di italianità era soprattuto un prodotto nomade.
Paradossalmente, il regime più identitatrio della storia italiana, in periodo di autarchia, si era trovato costretto a valorizzare il riso, graminacea di cui l’Italia era il più importante produttore europeo e grande esportare, a discapito della pasta, dovendo implicitamente ammettere l’impossibilità di un pieno successo della tanta propagandata “battaglia del grano”. Filippo Tommaso Marinetti proclamava nel 1931 nel suo Manifesto della cucina futurista “l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana”. Mangiare fascisticamente, doveva significare mangiare sano e italiano. E il riso era un cibo totalmente autarchico. La cucina italiana della resistenza di Emila Zamara, publicato subito dopo le sanzioni economiche comminate dalla Società delle nazioni all’Italia di Mussolini, “apriva le sue pagine con un lungo elenco di ricette di riso, che erano anteposte e più numerose di quelle dedicate alla pasta, a voler segnalare un primato del riso, anche se una buona parte dei condimenti proposti apparteneva più alla tradizione della pasta che a quella del riso”. Allo stesso modo, la rubrica Tra i fornelli pubblicata nelle colonne della Domenica del Corriere proponeva rigorosamente piatti di riso in sostituzione della pasta. Il fascismo, alla fine perse anche quella battaglia. Gli italiani mangiavano peggio che nell’Italia giolittiana, e il riso nell’immaginario come nelle abitudini alimentari non riuscì mai a rimpiazzare la pasta come piatto principe degli italiani.
Sono adesso usciti in libreria a qualche mese di distanza, due volumi che offrono un’immersione nella storia politica, sociale e culturale della pasta. Il mito delle origini, Breve storia degli spaghetti al pomodoro di Massimo Montanari, edito da Laterza, e Il paese dei maccheroni, Storia sociale della pasta, scritto per Donzelli da Alberto de Bernardi. Due letture appassionanti, che possono anche contribuire a far comprendere perché la (nuova) propaganda delle destre utilizzi argomenti come quelli della scomunica dei “tortellini senza carne di maiale” con il pretesto di preservare l’identità italiana. E come resistervi.
*Massimo Asta è storico dell’University of Cambridge
Twitter: @AstaMassimo