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La truffa dei banner pubblicitari con le facce dei vip: ecco come funziona e quali sono le responsabilità

“L’ha fatto anche lui, fidati!” è il messaggio subliminale. Diletta Leotta, Silvio Berlusconi, Vasco Rossi, Flavio Briatore, Claudio Lippi, Gianluca Vacchi si sono visti testimonial inconsapevoli e involontari di criptovalute. Marco Baldini sarebbe diventato milionario con i bitcoin ma lo scorso gennaio con un lungo post su Facebook ha denunciato le conseguenze personali e il disagio causato dalla truffa. Jovanotti uguale. Ecco perché proliferano online questi spazi pubblicitari

di Kevin Ben Alì Zinati

Guarda, clicca, paga. È il giro che sta dietro alle (ormai) vecchie truffe che oggi sfruttano un nuovo modo per spennare gli utenti del web. Cioè il faccione di un vip sparato su un banner online e l’invito a investire per fare soldi con i bitcoin. “L’ha fatto anche lui, fidati!” è il messaggio subliminale. Diletta Leotta, Silvio Berlusconi, Vasco Rossi, Flavio Briatore, Claudio Lippi, Gianluca Vacchi si sono visti testimonial inconsapevoli e involontari di criptovalute. Marco Baldini sarebbe diventato milionario con i bitcoin ma lo scorso gennaio con un lungo post su Facebook ha denunciato le conseguenze personali e il disagio causato dalla truffa. Jovanotti uguale, e pochi giorni fa ha sbottato palesando la necessità di maggiori controlli: “La rete è il far west, e come nei film western bisogna vigilare da soli, perché non c’è legge e quando c’è è troppo più lenta dei banditi”. La truffa miete vittime diverse. Spesso l’acquisto di bitcoin o creme “miracolose” o zaini anti ladro è reale ma a prezzi folli che rimpinguano le tasche di criminali, altre volte l’utente è palesemente frodato da piattaforme fake che gli scippano i dati personali. Il mezzo con cui si adescano le persone molte volte è illegale e perciò a farne le spese è chi fa la parte dell’esca che, come specifica Guido Scorza, avvocato ed esperto di diritto online, “vede la propria immagine sfruttata senza consenso e la propria identità violata”. Ma poiché queste false pubblicità sono spesso piazzate su siti di informazione e giornali online, ricettacoli di milioni e milioni di occhi, le vittime, specialmente morali, sono anche le piattaforme stesse. Vittime nel senso che a volte la gente pensa che lo facciano apposta a mettere i banner ma in realtà hanno poche responsabilità.

La truffa è a misura di utente

Consultato da ilFattoQuotidiano.it, un esperto di pubblicità online ha spiegato che oggi la gestione degli spazi pubblicitari sul web avviene soprattutto attraverso la pubblicità “Automatizzata” o “Programmatic Advertising”. È un sistema (legalissimo) che sfrutta i dati dei cookie e dei pixel, cioè piccoli file che vengono salvati automaticamente sul browser mentre navighiamo in un sito web. La navigazione viene memorizzata cosicché la successiva sia personalizzata in base alle nostre esperienze precedenti. Guardati dall’altro lato, i cookie permettono quindi di conoscere gli utenti e di fornire o suggerire loro esattamente ciò che si aspettano di trovare o che potrebbero potenzialmente comprare. Il Programmatic Advertising utilizza sistemi automatizzati che interpretano questi dati e, in maniera dinamica, li usano per fare pubblicità. Creano così una strategia di marketing a misura di ciascun utente e ogni annuncio è personalizzato: non verrà fatto vedere a tutti indistintamente ma solo all’utente più adatto, in un dato momento. Il fake banner in questione, infatti, non è fisso sui siti e se due amici nello stesso momento fossero davanti allo stesso sito, uno dei due al 90% non lo vedrebbe. La vendita e la pubblicazione online di una pubblicità avviene attraverso delle campagne di acquisizione. Alcune si basano su accordi riservati e automatici tra acquirente e venditore con prezzi fissi, altre invece sono gestite da vere e proprie aste. Che possono avere un numero ristretto di partecipanti oppure possono essere aperte a tutti e avvenire in tempo reale. La contrattazione è automatica e si svolge in frazioni di secondo e appena viene vinta, spedisce l’annuncio nello spazio pubblicitario prescelto dall’inserzionista. Si gioca tutto sul clickbait, l’adescamento al clic. Il traffico generato dal clickbait è a basso costo e porta con sé valanghe di clic che atterrano su una landing page, ovvero una pagina di atterraggio. E perciò importantissimo è l’amo con cui si pescano gli utenti e spesso la truffa sta qui, nel colpire l’occhio attirandolo da un’immagine che spaccia qualcosa per qualcos’altro. Il target medio di questo genere di attività è poco scolarizzato o molto sensibile in determinate parti della propria vita, per esempio a problemi di denaro o alla maternità. Oggi comunque da un punto di vista cognitivo l’occhio è più allenato ma soprattutto i controlli sono migliorati e più filtranti.

Faccioni rubati

Dietro l’aspetto tecnico, c’è quello legale e degli utenti e personaggi pubblici come parte lesa. Se per gli utenti c’è il furto di dati o di soldi, per i Vip c’è per esempio lo sfruttamento commerciale dell’immagine e della propria notorietà. Lo spiega Guido Scorza, avvocato ed esperto di diritto delle nuove tecnologie: “In queste attività si usa per esempio la faccia di Jovanotti perché è popolare e ispira fiducia. Ma se Jovanotti, come in questo caso, non è cliente della società e se quindi non c’è un contratto di sponsorizzazione, allora c’è uno sfruttamento illecito della sua immagine”. Ma anche della privacy e dell’identità personale dal momento che “si crea nel pubblico un collegamento tra una figura e una determinata condotta, a prescindere che sia lecita o meno, senza che il diretto interessato l’abbia approvato”. Creando un certo tipo di associazione si lede l’identità personale della persona che si è costruita un certo personaggio con cui vuole riflettere un certo tipo di valori. Secondo Scorza ci sono anche casi più gravi in cui si cade nel penale. Ovvero quando “sui social o per altre vie qualcuno si presenta come il manager di Jovanotti, per esempio, o come se si agisse per conto suo. In questo caso l’illecito è sostituzione di persona”.

Di chi è la responsabilità?

E i siti? Le piattaforme su cui appare il banner sui cui l’utente clicca e viene truffato o su cui il Vip vede la propria immagine sfruttata senza consenso, hanno responsabilità? Poche. Tendenzialmente ogni sito mette disposizione uno spazio in cui finirà poi l’inserzione del vincitore, per esempio, di un’asta. Ma non c’è un rapporto diretto con nessuno, né con il truffatore né con le agenzie vere. Solo con Google o altri network di advertising che devono far passare da quello spazio tutta la pubblicità che gli investitori ci appoggiano. “Per questo – continua Scorza – non c’è una responsabilità del gestore del singolo sito. Al limite si può discutere della responsabilità del gestore del canale di Advertising o dell’agenzia pubblicitaria ma sapere se la pubblicità in questione è una truffa o meno è parecchio difficile”.

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