Settant’anni compiuti quattro giorni prima della scomparsa, tutti spesi surfando tra la musica, i suoi eccessi e il bancone del Rainbow Bar di Los Angeles: dove, non a caso, si erge fiera la statua in bronzo a lui dedicata. Lemmy Kilmister è stato oltre che il fondatore e leader dei Motörhead (nei quali rivestiva il doppio ruolo di cantante e bassista), un’icona di stile nonché forse uno degli ultimi rappresentanti veri di quel nichilismo tipicamente punk che (così come avrebbe voluto Nietzsche) puntava tutto sul superamento della morale imperante. Il suo stile di vita era certo noto ma si guardò sempre bene dall’ostentarlo: calcando fino all’ultimo il palco, quando pure la testa oltre che il fisico cominciavano a suggerire il contrario.
Nato a Stoke-on-trent, più vicino a Liverpool che a Londra, non nascose mai il suo amore per i Beatles: che preferiva ai Rolling Stones per via di quel sapore un po’ garage che avrebbe poi costituito, anni e anni dopo, il marchio di fabbrica del genere heavy metal. Imbracciato lo strumento per entrare a far parte della terza formazione dei Rockin’ Vickers (che conosciamo esclusivamente per questo), si affacciò alla musica che conta in qualità di roadie di Jimi Hendrix per poi ottenere un provino con gli Hawkind coi quali rimase tre anni, dal 1972 al 1975, uscendone non per divergenze artistiche bensì perché all’eroina preferiva le anfetamine. Un brano in particolare diede l’ispirazione per quella che sarebbe diventata di lì a breve la sua band più fortunata: i Motorhead. Il senso dell’affermazione è qui da prendere sempre con le pinze, perché eccezion fatta per “Ace Of Spades” ed il successivo “No Sleep ‘Til Hammersmith” la sua non è mai stata musica da classifica: a svoltare, in quel caso sì, le sorti (specie economiche) di Lemmy furono infatti più le collaborazioni con Ozzy Osbourne, per il quale tra l’inizio e la metà degli anni novanta scrisse alcuni dei brani più famosi (“Mama I’m Coming Home”, “Desire”, “I Don’t Want To Change The World”, “See You On The Other Side”).
La band, complici anche una serie di cambi di formazione che più o meno da subito ne condizioneranno resa e popolarità, manterrà comunque fino alla fine la palma di gruppo ‘dal vivo’: fedele più alla filosofia di Chuck Berry e Little Richard, che a quella dei giganti dell’intrattenimento che pur muovendo dalla musica dei Motorhead hanno poi intrapreso un altro mestiere. Così, trascorsi pochi mesi dall’uscita dell’ultimo “Bad Magic”, due giorni dopo la diagnosi che ne sanciva la condanna a morte, e chiusa la partita al cabinato che il proprietario del già citato Rainbow aveva lui prestato, distante solo due isolati si spegnava Ian Fraser Kilmister: nato per perdere, avrebbe detto lui, vissuto per vincere.