Mosca. Potremmo parafrasare, per vezzo lessicale, il titolo di un bel romanzo di Alexandre Dumas: Vent’anni dopo. Perché sono giusto vent’anni che Vladimir Vladimirovic Putin è a capo del Cremlino. Solo che Putin non è D’Artagnan, anche se gli piacerebbe moltissimo: infatti da ragazzo aveva apprezzato le avventure dell’irruente guascone. E poi, i siloviki del Cremlino – gli uomini dei poteri forti: servizi, militari, polizia – non sono i romantici baldi moschettieri del re, semmai gli scherani di un uomo senza grandi qualità che volle farsi zar. E ci riuscì, scriveremo forse tra altri vent’anni. L’unica cosa che accomuna le vicende narrate da Dumas e l’irresistibile ascesa di un’ex spia del Kgb è il tempo trascorso.

Vent’anni dopo, nel romanzo di Dumas, i moschettieri del Re di Francia tornano in azione, implicati in nuove peripezie. Su di loro i vent’anni non sono trascorsi invano. Una certa stanchezza fisica si accompagna al disincanto sentimentale, a un certo cinismo. Ognuno di loro è dovuto scendere a patti, a compromessi con la società, con il potere, con gli stravolgimenti della politica: Richelieu è morto, il nuovo dominus della Francia è il cardinale Mazarino. Anche Luigi XIII non c’è più, lasciando sul trono un bambino.

La reggenza è nelle mani di Anna d’Austria, l’intrigante madre. Incombe la Fronda, e mille altre turbolenze hanno cambiato gli scenari in cui i moschettieri si ritroveranno coinvolti, sempre a difendere e a misurare i valori della lealtà e dell’amicizia. Si rimettono in gioco, uno per tutti e tutti per uno, e alla fine riusciranno a concludere l’ennesima ingarbugliata impresa, consapevoli però che il futuro per loro sta già passando.

Appunto, vent’anni sono tanti. Vent’anni per Putin, al contrario, sembrano ieri. Anzi, non solo il presidente russo non intende mollare la presa: ha grandi progetti per il futuro, dopo aver plasmato il passato e imbrigliato il presente – con un regime che è stato battezzato “democratura”, un po’ democrazia, tanta dittatura. Ha riportato la Russia laddove stava quando era Unione Sovietica e dove pensa debba stare di nuovo, e cioè tra le superpotenze del mondo, come in fondo era già ai tempi di Pietro il Grande, di Caterina, dei Romanoff.

Da vent’anni regge e guida con cipiglio e inflessibilità, da uomo forte, il destino della Russia, e non intende abbandonare questo compito che si è assegnato e al quale il popolo russo si è invece rassegnato. Quando crolla il Muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, Putin è in Germania, presso una “residenza” del Kgb a Dresda. Si occupa di “contatti” e arruola informatori. Si muove spesso. L’agenzia di sicurezza interna (e di intelligence estera) in cui era entrato nel 1975 lo considera un affidabile funzionario, ma nulla di più. Lui fiuta i cambiamenti. Si vuole smarcare.

E prepararsi al prevedibile collasso delle istituzioni comuniste. Come tutti al Kgb, perché conoscono lo stato reale delle cose, e sanno come bypassare la precaria situazione economica dell’Urss, con le inevitabili privatizzazioni: il loro compito è assecondarle, intervenendo con strumenti finanziari per sostituirsi allo Stato e pilotare la transizione. Un piano d’emergenza elaborato dai vari direttori dell’agenzia: è meglio lasciarla prima di essere travolti dall’inevitabile ristrutturazione delle varie intelligence, o di restare vittime delle epurazioni.

Così Putin – e con lui migliaia di altri funzionari e agenti – lascia l’agenzia nel 1990 (anche se in verità chi è stato nel Kgb non lo lascia mai veramente: lo ricorda infatti a ogni incontro coi dirigenti dei nuovi servizi). Trova impiego presso il municipio di San Pietroburgo, l’ex Leningrado che è la città in cui è nato nel 1952.

Il primo sindaco “democratico” è l’astuto Anatolij Aleksandrovic Sobchak, eletto nel giugno del 1991, uno degli estensori della nuova Costituzione federale. Lì comincia il tirocinio politico di Putin. Lì incontra un giovane avvocato, Dmitri Medvedev, altro protégé di Sobchak. Tra i due nasce un sodalizio che tuttora regge. Non ha ancora 46 anni quando viene chiamato a Mosca per diventare il direttore dell’Fsb, i servizi eredi del Kgb, riorganizzati all’americana sul modello dell’Fbi. È il 25 luglio del 1998.

Ci resta sino al 29 marzo del 1999. Boris Eltsin, il presidente, lo vuole alla Casa Bianca, la sede del governo. A Pietroburgo era diventato il consigliere del sindaco per gli Affari Internazionali, nonché direttore del comitato che si doveva occupare delle pratiche burocratiche legate alla registrazione delle imprese estere che si erano insediate a San Pietroburgo.

Con lui lavorava Aleksej Miller, intraprendente manager che sarebbe poi diventato capo di Gazprom, il braccio energetico del Cremlino. Attorno a Putin si era creato un nucleo di giovani ambiziosi e capaci, politici e imprenditori che sarebbero diventati i peters, gli uomini di San Pietroburgo ai posti chiave del potere.

L’operato del comitato non fu proprio limpido, ma Putin sopravvisse alle inchieste (non Sobchak, che dovette lasciare la città qualche anno dopo). Che Putin fosse un po’ disinvolto nelle sue attività lo dimostrò un’altra vicenda assai opaca, quando diresse la St. Petersburg Immobilien und Beteilingungs AG, un’agenzia immobiliare tedesca che finì sotto inchiesta in Germania per riciclaggio di denaro sporco.

Il che non gli impedisce di diventare deputato (1994) alle elezioni bis di San Pietroburgo e di guidare la delegazione metropolitana, sorta di lobby per governare la città sotto le insegne del partito La nostra casa è la Russia. E mica è tutto. Intuendo il ruolo fondamentale dei media, si addestra anche in questo settore, diventando capo della casa editrice che pubblica la testata Sankt-Peterburgskie Vedomosti. Travolto da uno scandalo, il mentore Sobchak perde le elezioni del 1996, sconfitto da Vladimir Jakoviev.

Putin punta alla capitale. All’inizio dell’estate diventa capo del Dipartimento per la gestione della proprietà presidenziale, sotto la direzione del potente Pavel Borodin. Nove mesi dopo, Eltsin lo nomina delegato capo del personale presidenziale, carica che conserva per tredici mesi. All’ombra del Cremlino, l’apprendista stregone del potere impara come destreggiarsi tra i vari clan che si disputano le spoglie dell’Urss e le sue immense riserve di gas, petrolio e materie prime.

Nel frattempo, consegue il Master in Economia con una relazione che anticipava le sue future strategie energetiche: “La progettazione strategica delle risorse regionali sotto la formazione dei rapporti di mercato”. Qualcuno, anni dopo, scrisse che gran parte del materiale era un copia e incolla di uno studio Usa, tradotto in russo dal Kgb negli anni Novanta.

Insomma, spregiudicato e inarrestabile. Eltsin ne saggia la freddezza e l’imponderabilità. L’oscuro funzionario è ormai bene addentro alla macchina organizzativa del Cremlino, pronto ad assecondare i desideri di un presidente minato dall’alcolismo, strattonato dalla “Famiglia”, il clan che lo sorregge nel governare il Paese – un’accozzaglia di oligarchi e consigliori, più figlia e genero avidi e accaparratori (andai a indagare su una fastosa villa acquistata a Cap d’Antibes, ma trovai solo nei documenti del catasto un paio di prestanome).

Il passaggio all’Fsb e al Consiglio di Sicurezza federale (1/10/1998) è strumentale. Ne diventa il responsabile nel marzo del 1999. Ad aprile, Putin, in qualità di direttore del Consiglio di Sicurezza, e il ministro degli Interni, Sergej Stepashin, mostrano in diretta tv un video sconcertante. Un uomo nudo che si sollazza a letto con due ragazze. L’uomo assomiglia molto al procuratore generale russo Jurij Skuratov. Putin assicura che, in base alle analisi della scientifica, l’uomo nudo è il procuratore e che l’orgetta era stata pagata da malavitosi.

Guarda caso, Skuratov aveva denunciato la corruzione del governo e del Cremlino. Non si può ricordare l’inizio del regime di Putin, se non si spiegano le ragioni che lo portarono ai vertici del potere russo. Distrutta la reputazione di Skuratov, la situazione non migliora affatto. Eltsin è nel mirino dell’opposizione comunista.

Ma anche dei ceti borghesi emergenti stufi di assistere al desolante spettacolo di un Paese sbranato da seimila clan mafiosi, dall’assalto indiscriminato dei predatori di risorse del Paese, da una burocrazia tanto vasta quanto inefficiente e dannosa, da scandali politici che minano alla base la credibilità della politica avviata da Eltsin, dall’astio nei confronti degli economisti stranieri (come gli esperti della cosiddetta scuola di Chicago) perché nel frattempo il rublo è colato a picco, i regolamenti di conti tra bande avvengono in pieno giorno ed in spregio delle forze di polizia.

Il Cremlino è alle strette. Il secondo mandato presidenziale è ormai al termine. Boris Eltsin è malato e sempre meno lucido e sempre più impopolare. La campagna elettorale è alle porte. Gli uomini del presidente si erano sforzati di impedire il ritorno in forze dei comunisti, pensando che questa fosse la minaccia principale. Macché. Il vero problema era la rivolta delle periferie, i governatori regionali che non obbedivano più al potere centrale, anzi, avevano deciso di consorziarsi e di presentarsi al voto uniti nel blocco “La Patria. Tutta la Russia”.

Come leader, il presidente della Repubblica del Tatarstan, Mintimer Chaimiev e i sindaci delle due più grandi città russe: Yuri Lukhov per Mosca e Vladimir Jakoviev per San Pietroburgo. Questo fronte anti Eltsin è sostenuto dall’ex ministro degli Esteri, Evgenji Primakov: è lui il vero nemico. Ha la stoffa di un capo di Stato, ha prestigio. Dall’altra parte, con un Eltsin ormai inaffidabile e impresentabile, c’è il vuoto. Inoltre, le casse dello Stato sono vuote: i prezzi di gas e petrolio sono precipitati a quotazioni minime, l’economia russa annaspa, fa fatica a superare la grande crisi finanziaria del 1998.

Eltsin capisce che deve giocare una carta imprevista dagli avversari. Il 5 agosto convoca nel suo ufficio il direttore dei Servizi federali di sicurezza. Cioè Putin. Gli propone il posto di Primo ministro. Per pochi mesi. Perché il vero obiettivo è un altro, è la presidenza: “Io credo in voi”. Putin capisce di non avere scelta. La più grande decisione della sua vita l’hanno presa altri. È abituato a rispettare le gerarchie, se dipende da esse.

Due giorni dopo, il 7 agosto, gli indipendentisti ceceni, capitanati da Samil Bassaiev, entrano in Daghestan. I primi scontri che scateneranno la seconda guerra cecena. Per i “Sette Banchieri”, i sette oligarchi ed eminenze grigie che dirigono in effetti la Russia in questo finire degli anni Novanta, Putin resta una scelta dettata più dalla disperazione, e forse anche dal dispetto, che non da affinità diciamo così elettive. Boris Berezovskij, proprietario della più grande catena federale televisiva, non è del tutto convinto, anzi. La pensa come lui Valentin Jumakev, il fidato genero di Eltsin e suo ascoltato consigliere.

Avrebbero voluto qualcuno più addentro agli ambienti finanziari e politici moscoviti, uno che fosse grato del loro appoggio e quindi dipendesse interamente da loro. Una marionetta. Ma Putin non lo è. E se ne accorgeranno subito. Il 9 agosto diventa premier. Il 16 la Duma ratifica la nomina: è il quinto capo di governo in 18 mesi. La poltrona scotta. L’opinione pubblica è diffidente. Putin è quasi sconosciuto. Fin dall’inizio l’opposizione cerca di scalzarlo.

Putin non lo dimenticherà mai. Dinanzi alle gherminelle politiche, Vladimir vuole accreditarsi come uomo d’ordine. Si rivela un primo ministro energico, abile e risoluto. Recupera la retorica patriottica cara ai comunisti, ma non rinnega d’essere difensore dei nuovi valori liberali, e della democrazia. Accondiscende alle pretese dei militari che vogliono avere mano libera nella repressione dell’insurrezione islamica nel Caucaso.

Il pugno di ferro gli assicura un immediato consenso popolare. Mosca è scossa da attentati. Si sospetterà, anni dopo, che forse non erano stati provocati dai ceceni, ma dai servizi. Il 24 settembre Putin dichiara: “Perseguiteremo dappertutto i terroristi e quando li troveremo, scusate l’espressione, li butteremo dritti nella tazza del cesso”. Ormai gli eventi precipitano.

Il 30 dicembre Eltsin ordina a Berezovskij di preparare una conferenza stampa per il giorno dopo. Dovrà fare un annuncio importante. Il 31 dicembre, emozionato e con voce leggermente tremula, annuncia le dimissioni. Lascia la presidenza ad interim nelle mani del primo ministro Vladimir Putin. A Mosca nevica. Eltsin pensa che sia un uomo incolore, diligente, manipolabile come lo era stato per tanto tempo. Fu un grave errore sottovalutarlo. Poche ore dopo, Putin si reca a visitare le truppe in Cecenia.

Da quel fatidico giorno di vent’anni fa, non ha mai smesso di consolidare l’immagine di un uomo che ha salvato la Russia dalla decomposizione e l’ha riportata al centro del mondo e della geopolitica. Che ha proclamato l’avvento del multipolarismo, che ha inventato la democratura e la “verticale del potere”, che ha lubrificato nazionalismo e sovranismo, che ha schiacciato l’opposizione e progressivamente ridotte le libertà e la società civile; che negli anni del suo dominio ci sono state centinaia di morti tra politici a lui avversi, giornalisti che lo criticavano – un nome su tutti: Anna Poliutkovskaja, uccisa il 7 ottobre del 2006, il giorno del compleanno di Putin.

L’uomo che volle farsi zar essendo ammiratore di Pietro il Grande (c’è un suo busto sulla scrivania del presidente russo) e che ha definito la dissoluzione dell’Urss una “catastrofe storica”, ma che poi ha dichiarato: “Colui che non rimpiange l’Urss non ha cuore, ma colui che auspica la sua rinascita non ha testa”.

Un personaggio forse enigmatico, di certo autocrate e ormai intrappolato dalle sue ambizioni “imperiali” euroasiatiche, dallo scontro con l’Occidente colpevole di assediare la Russia con la Nato ai suoi confini e di aver umiliato Mosca nel decennio eltsiniano; il presidente che ha barattato la sicurezza dei russi privandoli di molti, troppi diritti. Ma questa è materia di un altro racconto.

L’ascesa di Putin è la prima puntata. Quel che ha fatto nei suoi tumultuosi vent’anni di regime, la seconda. Di sicuro, il quarto mandato presidenziale scade nel 2024. Avrà 72 anni. Solo Pietro il Grande ha governato di più, per 42 anni. Poi, Stalin. Lui è già sul podio. (1-continua)

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