Le dimissioni del ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Lorenzo Fioramonti, sono un bel regalo di Natale, planato in extremis sotto l’albero degli italiani. Non ricordo un ministro che, in disaccordo con la politica del governo in materia sua, si sia alzato dalla poltrona salutando la compagnia, senza chiedere qualcosa in cambio. A Natale, etica e politica possono andare d’accordo. Più di metà dei commenti sui maggiori quotidiani online riconoscono il valore di un gesto coraggioso quanto desueto.

Le dimissioni del ministro sono un pessimo augurio di fine anno. Scolpiscono sulla pietra istituzionale la condanna della cultura, della conoscenza e dell’educazione nel nostro paese. Il lungo addio della società italiana, avventuratasi a passi lunghi e distesi sul precipizio di un sentiero senza ritorno. La delusione per la legge di bilancio dell’anno scorso si può applicare in modo automatico a quella di quest’anno, dell’anno prima e di quello prima ancora… La spesa pubblica per l’istruzione è in calo costante da 20 anni.

Invero, la spesa dell’Italia per la scuola è appena sotto la media di quella degli altri paesi avanzati. In particolare, la spesa per studente della scuola dell’infanzia e primaria è pari al 94% della media dei paesi Oecd, al 92% nel caso della scuola secondaria. Lo sconforto nasce dalla caduta verticale della spesa per l’educazione universitaria, alla quale dedichiamo una quota di Pil irrisoria, meno del nove per mille in base ai dati Oecd più recenti.

Possiamo concludere che, per la scuola, l’Italia spende male, viste le verifiche sempre più deludenti e, soprattutto, la crescente frattura geografica? E possiamo concludere con un no-contest per l’università, per la quale non spende affatto?

Dopo la crisi del 2009, quasi tutti i paesi europei, Germania in testa, hanno investito in scuola e università. Ancora di salvezza della cultura, volano di sviluppo, polizza di assicurazione del futuro. L’Italia, no. Gli ultimi sospiri del patetico tramonto dell’età Berlusconiana esalarono il taglio dei fondi a scuola e cultura. Assieme all’ultima e definitiva bastonatura dei professori. E, da allora in poi, non c’è stato alcun recupero. Né economico, né tantomeno morale.

I docenti universitari meno pagati del pianeta non smettono di “fare”, con risultati assai superiori alle aspettative, visto il rilievo del prodotto scientifico italiano nelle classifiche internazionali. Ma, per tutti, continuano a “essere” baroni o fannulloni, due definizioni che non si escludono a vicenda. A meno che il docente non entri nel giro giusto della pubblica amministrazione in virtù di qualche incarico gestionale, che lo proietta nell’empireo della casta dirigente, co-optato dalla politica e coccolato dai media.

Gli studenti sono ancora e sempre bamboccioni. Quando si trasformano in cervelli in fuga, però, diventano soprattutto 300mila euro cadauno di spesa pubblica che si volatilizza. Mai che siano anche cittadini, persone, coscienze.

In un breve saggio – un fantasmino nella versione italiana (Morte e resurrezione delle università, Kdp, 2018) ma bastantemente apprezzato in quella internazionale (The decline and renaissance of universities, Springer, 2019) – mostro come il modello di università che fu santificato a Bologna 30 anni fa dalla Magna Charta Universitatum, 18 settembre 1989, sia stato del tutto ignorato. In tutto il mondo, la storica idea di università – centro di cultura, educazione dei giovani, diffusione della conoscenza, libertà – sta franando in un fragile percorso di formazione di lavoratori dall’incerto futuro, con capacità presto obsolete e difficoltà di pensiero autonomo. La McUniversity, impostata sul modello McDonald di Fast Food, si è compiutamente realizzata.

L’Italia eccelle nella velocità con cui coltiva questo declino. E non è solo questione di soldi. La società civile è strangolata da un groviglio di norme oscure che garantiscono la prosperità di una burocrazia ottusa e vorace. Ogni nuova norma reclama nuovi burocrati che generano nuove norme, una cascata infernale. La forbice crescente tra l’Italia e il resto dell’Europa (Figura 1) è tutta a sfavore dell’istruzione. Dove va ciò che manca all’istruzione? Una manna che scende sulla burocrazia, sacerdote di una legislazione che eleva il controllo di gestione a vera e propria religione.

La vera, sensata, indispensabile riforma che il ministro Fioramonti avrebbe potuto abbozzare – “a costo zero” come sarebbe piaciuto a chi governa – è l’abolizione di tutte le riforme che negli ultimi 20 anni hanno mitridatizzato l’università. Il vero ritorno al futuro sarebbe un tuffo nel passato. Bisogna restituire l’università agli studiosi appassionati e agli studenti curiosi, in cerca di consapevolezza, condivisione e conoscenza, sottraendola ai burocrati astuti. Ma il coraggio è mancato e continua a mancare.

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