di Luigi Manfra*

L’Hirak, il movimento di protesta algerino nato il 22 febbraio 2019, ha continuato a scendere in piazza per nove mesi. Ogni venerdì migliaia di persone hanno continuato a riunirsi dopo la preghiera nelle piazze per chiedere elezioni libere e democratiche, non organizzate e monopolizzate dalle solite élite che governano l’Algeria fin dai tempi dell’indipendenza.

Così ha fatto anche il giorno delle presidenziali. Migliaia di algerini hanno marciato nella capitale del paese dopo l’annuncio della vittoria, già al primo turno delle elezioni presidenziali, di Abdelmadjid Tebboune. Una marea umana ha invaso il centro di Algeri il 12 dicembre per contestare il nuovo capo di stato eletto, ex seguace del presidente estromesso Abdelaziz Bouteflika, dopo un’elezione ampiamente boicottata dagli algerini.

Il voto, infatti, è stato segnato da un’astensione record promossa dal movimento di protesta popolare, presente per la prima volta in Algeria dall’indipendenza del 1962, che ha costretto Bouteflika a dimettersi lo scorso aprile dopo 20 anni di governo. Nessuno dei cinque candidati alle elezioni ha trovato il favore della folla, che li considera tutti prodotti di un regime odiato che grazie all’esercito continua a mantenere il potere.

Per i 24 milioni e mezzo di algerini, iscritti nei registri elettorali, erano stati aperti 13mila seggi sparsi per il territorio nazionale, mentre quasi un milione di residenti all’estero, soprattutto in Francia, potevano votare nei consolati e nei seggi allestiti appositamente. L’affluenza alle urne, il 39,83% degli aventi diritto, è stato il livello più basso nella storia delle elezioni presidenziali in Algeria. È inferiore di oltre dieci punti rispetto a quello già basso delle precedenti elezioni che nel 2014 hanno visto la quarta vittoria di Bouteflika, e che molti osservatori considerano anche gonfiato perché frutto di brogli.

Ancora oggi i manifestanti continuano a chiedere la fine del sistema e l’allontanamento di tutti gli ex sostenitori o collaboratori degli ultimi 20 anni del regime. Per loro il risultato delle elezioni ha comunque avuto poca importanza. Il vincitore Abdelmadjid Tebboune e gli altri quattro candidati, del resto, appartengono allo stesso gruppo dirigente che aveva visto a maggio di quest’anno arrestare e condannare anche due ex primi ministri e il fratello di Bouteflika, con l’obiettivo di placare la folla.

Gli arresti e gli altri provvedimenti erano stati presi dal generale Ahmed Gaïd Salah, capo dello staff dell’esercito e uomo forte del regime, il quale aveva anche indicato la nuova data delle elezioni rassicurando i propri interlocutori che la partecipazione sarebbe stata massiccia. In aprile, infatti, Gaïd Salah aveva sacrificato Abdelaziz Bouteflika e aveva chiesto e ottenuto le dimissioni del vecchio presidente, diventando il vero detentore del potere in Algeria. Aveva inoltre rimandato ulteriormente le elezioni presidenziali al 12 dicembre, per eleggere il successore del vecchio presidente.

Ma, ironia della sorte, il potentissimo generale Ahmed Gaïd Salah è morto lunedì 23 dicembre all’età di 79 anni. Sparisce con lui il guardiano intransigente del regime e principale argine del popolare movimento di protesta. Per lo storico Pierre Vermeren, professore di storia contemporanea all’Università Panthéon-Sorbonne e profondo conoscitore del Maghreb, il nuovo capo di stato e il regime potranno ancora contare sull’appoggio di un 30-40% della popolazione algerina soprattutto tra i membri del Fronte di liberazione nazionale (Fln), le famiglie dei mujaheddin, combattenti per l’indipendenza e forse anche da parte di anziani spaventati dal caos dell’ultimo anno.

La legittimità, anche a causa della scomparsa del generale Ahmed Gaïd Salah, il nuovo capo dello Stato se la dovrà conquistare, perché non sarà in grado di governare contro le élite e contro la protesta. Lo attende un pesante compito per ricostruire l’unità del Paese. Il presidente sarà obbligato a fare concessioni, aumentare i salari, liberare i prigionieri politici e avviare un periodo di transizione, dialogando con tutti i gruppi sociali per trovare una via d’uscita dalla crisi.

Il compito è difficile perché, dopo aver portato il paese in un vicolo cieco, ipotizzare un dialogo fecondo per trovare un compromesso sembra molto improbabile. Il regime si trova isolato e massicciamente respinto dal suo stesso popolo: un terzo più o meno sostiene il regime, un terzo appare depoliticizzato e soltanto l’ultimo terzo è contrario al regime. Quel che è certo è che il futuro dell’Algeria dipenderà dalla capacità di resistenza del movimento Hirak nell’imporre una transizione verso un regime democratico.

* Responsabile progetti economici-ambientali Unimed, già docente di politica economica presso l’Università Sapienza di Roma

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