L’ossessione anti-iraniana e l’innata vocazione alle decisioni impulsive di Donald Trump spingono le lancette dell’orologio della pace bruscamente vicine alla mezzanotte della guerra: con l’uccisione del generale Qassim Soleimani e di altri comandanti militari iracheni e iraniani fuori dall’aeroporto di Baghdad, il mondo diventa improvvisamente un posto molto più pericoloso. Chi vi racconta che quell’azione è stata condotta nel nome della sicurezza vi racconta una panzana.

Adesso, il livello d’allarme s’è alzato. Ci vorrebbe la lucidità e l’autorità per stemperare animosità e rivendicazioni, ma i principali protagonisti sono più incendiari che pompieri, con i leader iraniani che annunciano vendetta. I comprimari? L’Europa ha forse lucidità, ma le manca l’autorità – e pure la volontà – di farla valere.

Una gravissima escalation nelle relazioni già tesissime tra Stati Uniti e Iran, un passo sconsiderato verso il baratro di un conflitto dalle prospettive non bene calcolate: con formula quasi identica, ‘major escalation’, considerazioni simili accompagnano i primi racconti dell’attacco americano: New York Times, al Jazeera, Le Monde, El Pais, The Guardian.

L’azione ordinata dal presidente Usa Trump, probabilmente cogliendo un’opportunità segnalata dall’intelligence e dai militari, getta tutto il 2020 in una prospettiva sinistra di guerra e di sangue: rischia d’innescare un conflitto nella regione e di avere come corollario sussulti di terrorismo un po’ ovunque nel mondo. E c’è il dubbio che il magnate presidente anteponga i suoi calcoli elettorali a ogni altra considerazione. Come, del resto, la vicenda dell’Ukrainagate, all’origine della procedura d’impeachment in atto, ha già dimostrato, su un livello di pericolosità incommensurabilmente inferiore.

I giorni a cavallo tra il 2019 e il 2020 hanno visto un rimbalzo di provocazioni e reazioni che hanno repentinamente rialzato il livello dello scontro. La retorica anti-iraniana dell’amministrazione Usa era da settimane in sordina. Sabato 28 dicembre Trump ordina una ritorsione, dopo l’uccisione d’un contractor americano in una base a Kirkuk attaccata da milizie filo-iraniane: raid aerei contro cinque postazioni filo-iraniane in Iraq e in Siria, almeno 25 vittime, “un successo” secondo il Pentagono.

Per tutta risposta, razzi cadono in prossimità di una base che ospita soldati americani a Taji, a nord di Baghdad; e Iraq, Iran e Russia denunciano concordi la violazione Usa della sovranità irachena, “un atto di terrorismo” per Teheran, “inaccettabile e controproducente” per Mosca. Con la politica del ‘pugno sul tavolo’, già sperimentata in Siria a due riprese, Trump eccita, com’era scontato, l’opinione pubblica irachena, contro gli Stati Uniti e innesca proteste anti-americane, nel contesto d’un Paese scosso da mesi da violente proteste sociali, economiche e politiche.

A Mar-a-Lago si tiene una sorta di consiglio di guerra, con i segretari agli Esteri Mike Pompeo e alla Difesa Mark Esper. A Baghdad, l’ambasciata statunitense, un edificio immenso, è sotto attacco: una torretta va in fiamme; la protezione fornita dalle autorità irachene si rivela non a tenuta stagna.

Alla fine, il magnate dà a Teheran la colpa degli incidenti anti-americani e decide di inviare “immediatamente” 750 soldati Usa in più in Medio Oriente, l’avanguardia di un contingente più numeroso. Mostrato i muscoli, Trump sembra stemperare le tensioni e tornare a toni meno bellicosi, mentre a Baghdad cala una calma tesa, dopo il ricorso ai lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine.

Dura poche ore: l’attacco che uccide Soleimani, fra gli artefici della sconfitta dell’Isis, il sedicente Stato islamico, ed altri infiamma di nuovo la situazione e la Regione, dove gli Stati Uniti appaiono gli alleati incondizionati d’Israele e dell’Arabia saudita.

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