Cinema

Sorry we missed you, il cinema resistenziale di Ken Loach in un film di una intensità impagabile

Il regista inglese, sta dalla parte degli ultimi, di chi non ce la farà mai. Sa che il cinema non potrà cambiare il mondo ma almeno potrà ridare ai protagonisti dei suoi film quella dignità e umanità che la vita in qualche angolo reale del mondo gli ha ingiustamente tolto

di Davide Turrini

Si chiama cinema resistenziale. La firma in calce è quella di Ken Loach. Sorry we missed you, traducibile con la frase del cartoncino lasciato dal corriere in assenza del cliente all’atto della consegna del pacco, è la rappresentazione in immagini realistiche della deregulation del mondo del lavoro nell’evo del neoliberismo. Se non si capisce, o non si conosce, questo elemento storico politico dell’oggi, non si capisce il tono, la direzione, il piano inclinato del film. Nel raccontare il nuovo “lavoro” di Ricky (Kris Hitchen), corriere ipersfruttato 14 ore al giorno, sei giorni su sette, scanner a codificare pacchi, controllare ogni sua curva, percorso, pausa, respiro, una bottiglietta per pisciare dentro al camioncino visto che non si potrà fermare per andare in bagno, Loach ricorda che non è tanto un problema di incompatibilità con il capoufficio, un mastrolindo fetente e cinico, a rendere la vita di Ricky un inferno. È il sistema economico finanziario ad essersi mangiato quello politico da tempo (dagli anni della Thatcher, almeno per il Regno Unito) e a richiedere, sotto le mentite spoglie di una presunta autonomia lavorativa (“sarai padrone del tuo destino”, “lavori con noi non per noi”), uno sfruttamento che nemmeno nel medioevo.

Facciamo notare, ancora per chi giovinetto tra i giovinetti si appresta ad entrare nel mondo del lavoro a queste condizioni (ci sono ovunque) che questa dittatura di pochissimi ricchi sulle moltitudini meno abbienti era stata rintuzzata dai “gloriosi trenta” con un formidabile patto tra capitale e lavoro. Chiusa la parentesi storico-politica, che però nei film di Loach, almeno in quest’ultimo “dittico di Newcastle” – Io, Daniel Blake e Sorry we missed you – penzola come un cappio al collo dei lavoratori più disgraziati, ecco aprirsi lo scenario quotidiano di Ricky; della moglie Abby (Debbie Honeywood) che fa la badante a singhiozzo, correndo in ogni angolo della città, stessi orari mostruosi del marito; del figlio graffitaro e discolo a scuola; e della figlioletta più piccola che regge l’assenza dei genitori con una forza e un’energia casalinga ed etica da spavento.

L’incipit del film è illusorio. La presunta emancipazione del singolo corrierino è un bluff indegno. Ricky schizza ovunque. Rischia multe, incidenti, guida come un matto per ricevere la firma/registrazione di un documento del mittente per non perdere la realizzazione di una consegna e finire in fondo alla classifica dei più bravi. Perché se poi un giorno deve assentarsi o trova un sostituto o deve pagare centinaia di sterline di multa. Perché se rompe lo scanner sono altre mille sterline di punizione. Insomma Ricky è un dipendente, ma per far evitare i costi di naturali diritti sul lavoro, cancellati negli anni dai governi conservatori e laburisti, risulta un lavoratore autonomo. È un gioco al massacro che Loach disegna senza concedere gratuite esagerazioni melò o scene madri spettacolarizzanti. La sua regia è mai come oggi, ad 83 anni compiuti, lucida, precisa, rarefatta. In scena scorgiamo solo l’essenzialità di ciò che serve per farci capire che per i protagonisti non ci sono appigli di speranza.

Un recensore inglese ha parlato di “devil in the details” per spiegare come il significato di alcuni particolari apparentemente semplici possieda in realtà una complessità di lettura in questo caso estremamente drammatica. La bottiglietta per urinare citata più sopra. La pomata al mentolo messa sotto al naso da Abby prima di entrare nelle case degli anziani. L’inquadratura in semisoggettiva di fianco al braccio di Ricky per permetterci di scorgere il contenuto di una lettera delicata riguardante il figlio. Il rebus dello sfruttamento non si risolve con la volontà individualista vincente modello La ricerca della felicità. Non si è più bravi se si fanno più consegne o si scala la gerarchia aziendale.

Loach vuole solo ricordare che chi parte socialmente in svantaggio deve avere la possibilità di vivere degnamente senza essere barbaramente sfruttato. E lo fa con l’intensità di un film impagabile nel suo doloroso raziocinio, con la grazia di un’idea di cinema che sembra ri-acquisire espressivamente la potenza del muto, con la dolcezza di un piccolo screzio comico calcistico a increspare il tran tran delle mansioni del protagonista, con quella straordinaria sequenza in cui papà e figlia insieme sul camioncino intraprendono un sabato di consegne, si fermano un attimo e al tramonto a sedere sul retro del mezzo osservano l’orizzonte. Un raggio di sole illumina ad entrambi il viso con un campo e controcampo, macchina da presa finemente alle loro spalle (Robbie Ryan alla fotografia va segnalato), che sembra far scorgere loro un barlume di luce futura. Poi scatta il bip dello scanner. La pausa di due minuti è finita. Sorry we missed you è l’emblema visivo di un oggi disperato che non si vuole più mostrare. E Loach, stando dalla parte degli ultimi, di chi non ce la farà mai, delle vittime della “lotta di classe dall’alto” (Gallino), sa che il cinema non potrà cambiare il mondo ma almeno potrà ridare ai protagonisti dei suoi film quella dignità e umanità che la vita in qualche angolo reale del mondo gli ha ingiustamente tolto.

Sorry we missed you, il cinema resistenziale di Ken Loach in un film di una intensità impagabile
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