Il delitto Mattarella? “Gli inquirenti non possono scoprire ogni responsabilità: alcuni delitti sono perfetti“. A parlare nel 1989 era uno che di responsabilità mai scoperte se ne intendeva: Licio Gelli, il maestro venerabile della loggia P2. D’altra parte quello di Piersanti Mattarella è proprio questo che sembra: un delitto perfetto. Non è solo la storia di un omicidio eccellente. E non è neanche la solita storia di un omicidio senza colpevoli. Perché i colpevoli, in questa storia, ci sono e sono gli stessi di tutte le mattanze siciliane: i mafiosi. Bastano? No, non bastano. Perché 40 anni dopo non si sa ancora chi ha sparato al presidente della Sicilia, vicino ad Aldo Moro, che voleva riformare l’isola-regno di Cosa nostra. Non si sa neanche oggi, che il fratello della vittima è il presidente della Repubblica. Che storia è quella di un Paese che non riesce a scoprire neanche gli assassini del fratello del suo presidente? Eppure quattro decenni dopo non conosciamo il nome dell’uomo dagli “occhi di ghiaccio“, col “piumino azzurro” e “l’andatura ballonzolante“, che il giorno dell’epifania del 1980 ha premuto per otto volte il grilletto. ”Era un robot che sparava come se sparasse ad una pietra”. Quel robot è rimasto senza nome perché i processi hanno stabilito soltanto che quell’omicidio era stato ordinato dal gotha di Cosa nostra. Un ordine eseguito da chi? I presunti killer, cioè i terroristi neri Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, esponenti dei Nuclei armati rivoluzionari, sono stati assolti in via definitiva. Attore bambino che aveva recitato in alcuni spot per Carosello, divenuto noto per il suo ruolo nella serie La famiglia Benvenuti, fondatore dei Nar e protagonista del terrorismo nero tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, Fioravanti è stato condannato a 8 ergastoli per vari omicidi, compresa la strage di Bologna. Dall’8 aprile del 2009 è libero, ma ha sempre negato ogni suo coinvolgimento nell’omicidio Mattarella. Nonostante ad accusarlo ci fosse addirittura suo fratello Cristiano, con il quale aveva condiviso anni di agguati e omicidi: “È stato Valerio a dirmi che avevano ucciso un politico siciliano”. Riconosciuto non colpevole dalla Cassazione insieme a Cavallini, Fioravanti non può più essere processato per quel delitto essendo protetto dal ne bis in idem. Eppure ancora oggi rimangono convinti della pista nera alcuni addetti ai lavori che seguirono tutta l’inchiesta sull’omicidio Mattarella: dal sostituto procuratore generale che rappresentava l’accusa nel processo d’Appello all’avvocato di parte civile della famiglia. E la traccia che lega Mattarella ai neofascisti resta sul tavolo della procura di Palermo, che l’anno scorso ha riaperto un fascicolo per compiere alcuni accertamenti mai fatti prima. E provare a fare chiarezza su alcuni punti rimasti oscuri del delitto. “È ancora possibile tentare di dare un nome e un volto al killer di Piersanti Mattarella”, dice Nino Di Matteo, ex pm e componente del Csm.
La saldatura tra mafia e neofascisti: l’indagine di Falcone – Ma che c’entrano i neri con Mattarella? Perché i neofascisti avrebbero dovuto uccidere un politico che dava fastidio a Cosa nostra? E poi: il presidente della Sicilia con i suoi piani urbanistici e gare d’appalto trasparenti dava davvero solo fastidio a Cosa nostra? O la sua apertura a sinistra, ai comunisti, non poteva essere tollerata in un Paese che due anni prima aveva visto assassinare Moro, il padre del compromesso storico? “Quella sul delitto Mattarella è un’indagine estremamente complessa, perché si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa: il che potrebbe significare saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”, disse il 3 novembre del 1988 alla commissione Antimafia Giovanni Falcone, il giudice istruttore che mandò a processo Fioravanti e Cavallini. In che senso “rifare la storia anche di tempi assai lontani“? A cosa si riferiva il magistrato ucciso nella strage di Capaci? Il segreto su quel verbale è stato tolto da Palazzo San Macuto solo di recente. Agli atti dell’indagine di Falcone c’era il dossier del magistrato Loris D’Ambrosio, esperto di terrorismo e all’epoca in servizio all’Alto commissariato antimafia, secondo il quale quello di Mattarella fu “un omicidio di politica mafiosa, che attraverso una serie di confluenze operative ed ideative apparentemente disomogenee, è in grado di dare il senso compiuto dell’anti-Stato”. Mattarella, dunque, fu ucciso perché nemico dell’antistato, quell’unione di entità che Roberto Scarpinato ha ribattezzato “sistemi criminali“. Ma perché Cosa nostra doveva usare i neofascisti come killer? Secondo D’Ambrosio per “disorientare l’opinione pubblica e l’apparato investigativo” e dimostrare “alla stessa organizzazione quanto devastante ed estesa sia la capacità di espansione e controllo che l’anti-Stato è in grado di esercitare“. L’indagine di Falcone parte da uno spunto: quello di leggere i delitti politici siciliani sotto la stessa lente. Tra la fine del 1979 e l’aprile del 1982, infatti, Cosa nostra elimina il segretario della Dc a Palermo, Michele Reina, e quello del Partito comunista, Pio La Torre: la classe dirigente siciliana spazzata via in meno di tre anni. Non poteva essere un caso. E infatti, come ha raccontato Salvo Palazzolo su Repubblica, solo pochi giorni fa la procura di Palermo ha riaperto anche l’indagine su Reina, ucciso il 9 marzo del 1979: anche per quel delitto non si conoscono gli esecutori.
Ombre e luci: i Mattarella da Castellammare – Dieci mesi dopo Reina e due anni prima di La Torre, cade Mattarella, quarantacinque anni, presidente della Regione Siciliana dal 20 marzo 1978, quattro giorni dopo il rapimento di Moro. Figlio d’arte di Bernardo, fondatore della Dc e più volte ministro, Mattarella negli anni ’70 cambia radicalmente le sue posizioni: si allontana da Vito Ciancimino, che – secondo la ricostruzione del libro Ombre Nere (Rizzoli) di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco – aveva contribuito a far eleggere sindaco di Palermo nel 1970, e si smarca anche dalla pesante eredità del genitore, morto a Montecitorio nel 1971 per un malore. Su Mattarella senior, infatti, sono state avanzate negli anni accuse di presunta e mai dimostrata contiguità mafiosa, sempre smentite sia dai familiari che dal diretto interessato. Originario di Castellammare del Golfo, già negli anni ’60 il padre dell’attuale capo dello Stato aveva denunciato per questo motivo il sociologo Danilo Dolci, che sarà poi condannato in via definitiva per diffamazione. Le ombre sul genitore saranno utilizzate anni dopo dai nemici di Sergio, che sostituirà il fratello Piersanti nell’impegno politico. Nel 1992 il socialista Claudio Martelli disse a proposito del vecchio Bernardo: “Fu il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal fascismo, dalla monarchia e dal separatismo, verso la Dc. Può darsi, come molti affermano, che il figlio Piersanti si sia riscattato da quella storia familiare e che per questo sia caduto”. È probabilmente una delle poche volte in cui Sergio Mattarella ha perso la sua proverbiale compostezza: “Martelli la deve smettere con questa incivile abitudine di insultare le persone morte da tempo; questo attiene non alla politica ma soltanto alla educazione e alle basi elementari della convivenza civile ed umana. E poi, le sue, sono tutte menzogne. Mio padre fu notoriamente antifascista, contro la mafia che era monarchica e separatista. Fu repubblicano e fu il principale avversario del separatismo in Sicilia”.
L’esecuzione dell’Epifania: il film dell’omicido – In ogni caso già nella seconda metà degli anni ’70 Piersanti Mattarella è considerato un astro nascente della Dc, indicato come possibile nuovo vicesegretario nazionale e fedelissimo sostenitore di Moro. È seguendo la strada tracciata dal leader della Dc che Mattarella ha aperto ai comunisti: la sua era una giunta di centrosinistra, varata per disegnare una “Sicilia finalmente con le carte a posto“. Poteva la Sicilia avere le carte a posto nel 1980, quando lo strapotere di Cosa nostra teneva sotto scacco l’intera isola? No, non poteva. Sarà per questo che quel 6 gennaio del 1980 Mattarella è inquieto. A Palermo piove, è quasi l’ora di pranzo quando in via Libertà, il salotto buono della città, all’altezza del civico 135 spunta il presidente della Regione. Quel giorno il presidente deve uscire con la famiglia: la moglie Irma Chiazzese, i figli Bernardo e Maria, la suocera. Liquida la scorta con una telefonata, poi guida fuori dal garage la sua Fiat 132 blu scuro. Nel frattempo, sua moglie si accorge della presenza di un giovane, un biondino con un “piumino azzurro” che è sceso da una Fiat 127 bianca. Viene colpita da due particolari: gli occhi “che non so come esprimere, erano troppo piccoli o troppo ravvicinati o troppo distanti tra di loro”. E poi la camminata: “Potei notare – dirà la donna – che procedeva con passo elastico e ondeggiante, in sostanza mi diede l’impressione di un’andatura ballonzolante”. Non ci fa caso più di tanto, all’inizio. La signora Mattarella sale in macchina, insieme al resto della famiglia. Fuori resta solo il giovane Bernardo che si attarda a chiudere il garage. Quando ecco che il biondino ricompare dal nulla: si avvicina all’auto e tenta di aprire la portiera. Non ci riesce. Cosa vuole? Sparare: estrae la pistola ed esplode uno, due, tre, quattro colpi. Mattarella cade riverso sulle gambe della moglie mentre il biondino si ferma. Cosa fa? Torna indietro perché la pistola che stringe in mano si è inceppata. Va verso la 127 dove l’aspetta un complice, si fa consegnare un’altra pistola, torna indietro, prende la mira e spara altre quattro volte, colpendo anche la signora Mattarella ad un dito. “Stringevo Piersanti e guardavo quell’auto sperando che il Signore li facesse andare via. E invece no: il complice, quello alla guida, ha fatto dei gestacci, proprio come se gridasse all’assassino di tornare a sparare. E lui è venuto di nuovo verso di noi. I suoi occhi fissi nei miei, ha sparato l’ultimo colpo“. Poi il robot fa dietrofront, s’infila in macchina e svanisce. Per sempre.
I testimoni mai interrogati – Chi ha ucciso il presidente della Sicilia? Chi è l’autore della strage dell’Epifania? Chi è quel biondino con l’andatura ballonzolante che indossava un piumino azzurro? Se lo chiedono gli investigatori già qualche minuto dopo, quando in zona si scatena l’inferno. Bernardo chiama subito lo zio Sergio, ma non ha il coraggio di dirgli la verità: “Vieni, presto, papà ha avuto un incidente“. Il futuro presidente della Repubblica abita lì vicino: scende di casa senza neanche mettere il cappotto. L’ambulanza non arriva, arrivano però i primi curiosi, i giornalisti e i fotografi Letizia Battaglia e Franco Zecchin, autori della storica foto del futuro capo dello Stato che soccorre il fratello. E poi arriva anche il pm di turno che quel giorno è Pietro Grasso: per una curiosa coincidenza sul luogo dell’omicidio Mattarella s’incrociano le due future più alte cariche dello Stato. Non è l’unica coincidenza. Per esempio tra i testimoni sul luogo del delitto un piccolo quotidiano dell’epoca, Diario, inserisce anche Giovanni Mercadante, un radiologo che nel 2001 sarà eletto in consiglio regionale con Forza Italia e nel 2015 sarà condannato a 10 anni e 8 mesi per mafia: era il medico di Bernardo Provenzano. L’autore dell’articolo, Angelo Mangano, ha raccontato a Rizza e Lo Bianco che “Mercadante era stato uno dei primi ad arrivare, vide il killer sparare, mi disse che l’uomo che lo aspettava sulla Fiat 127 indossava un pullover scuro”. È l’unico testimone che parla del complice dell’assassino, cioè quello che secondo la prima inchiesta dovrebbe essere Cavallini. Ma Mercadante non è mai stato interrogato dai pm, neppure adesso che è in carcere. “Eppure – ricorda il giornalista – era stato un funzionario della Squadra mobile a indicarmi un gruppo di testimoni”.
Indagini in mano alla P2 – Sarà un’altra coincidenza ma in quei primi mesi del 1980 gli organi investigativi palermitani erano in mano a Licio Gelli. Il capo della Mobile di Palermo è Giuseppe Impallomeni, che era iscritto alla P2, mentre a maggio diventerà questore Giuseppe Nicolicchia, affiliato alla Ompam, un’altra loggia guidata dal gran burattinaio. I vertici degli organi investigativi che per primi indagarono sul delitto Mattarella facevano parte della massoneria deviata. È Nicolicchia che invia Bruno Contrada, all’epoca uomo di punta della Criminalpol (poi condannato a dieci anni per concorso esterno alla mafia), fino a Londra per mostrare a Irma Chiazzese – in quel momento ospite in Inghilterra da alcuni amici di famiglia – l’identikit del boss Salvatore Inzerillo. Gli investigatori chiedono alla vedova di riconoscere nel mafioso l’assassino di suo marito. In quel modo avrebbero chiuso l’indagine in tempi record individuando i colpevoli nelle famiglie che stavano perdendo la guerra di mafia contro i corleonesi. La vedova Mattarella però è irremovibile: Inzerillo con il biondino col piumino azzurro non c’entra nulla. Per la verità la vedova non è mai rimasta soddisfatta neanche dell’identikit disegnato dalla polizia su sua indicazione subito dopo il delitto. Il 27 febbraio 1980, però, il Corriere della Sera diffonde l’identikit dell’assassino di Valerio Verbano, un giovane dell’area di Autonomia operaia ucciso la settimana prima a Roma. Irma nota subito del disegno: quello sì che somiglia tantissimo al killer di suo marito. Solo che sarà solo negli anni successivi che farà allegare alla sua deposizione quel ritaglio di giornale.
Le accuse a Giusva – È la testimonianza della vedova che spingerà l’ufficio istruzione di Palermo a concentrare le sue indagini su Fioravanti. Quando la donna racconta a Falcone la camminata del killer, il giudice dice: “Ma questo è il modo di camminare di Giusva Fioravanti!”. A raccontarlo a Falcone è Stefano Soderini, ex esponente di Terza posizione poi diventato collaboratore di giustizia: “La descrizione del killer riferita dalla vedova si attaglia a Valerio Fioravanti. Fioravanti si muoveva così anche quando era in azione. Questo suo modo di comportarsi, quasi giocherellone, spiazzava le persone, che non si accorgevano delle sue reali intenzioni se non quando era troppo tardi”. Ma non solo. Quando i giornali pubblicano la foto del fondatore dei Nar, la domestica di casa Mattarella si mette a piangere e dice alla vedova che quel ragazzo somiglia a quello che ha visto dal balcone il giorno dell’omicidio. Basta? No, perché ad accusare Giusva c’è anche il fratello Cristiano, prima terrorista nero pure lui, poi tormentato collaboratore di giustizia: ”È stato Valerio a dirmi che avevano ucciso un politico siciliano”. In quei giorni di gennaio del 1980, tra l’altro Fioravanti si trova proprio a Palermo per progettare l’evasione dal carcere dell’Ucciardone dei Pierluigi Concutelli, leader di Ordine nuovo, considerato una vera leggenda tra i neofascisti dell’epoca. Ed è lui stesso che a domanda diretta degli inquirenti risponderà: “In quel periodo indossavo un piumino azzurro-blu“. Sulla base di tutte quelle testimonianze Falcone comincia a scrivere il suo atto d’accusa: è il dossier sui cosiddetti “delitti politici” che individua Fioravanti nel killer di Mattarella, nell’ambito di una sorta di ”scambio” tra Cosa nostra e l’eversione nera. “La genesi logica della scelta, da parte di Cosa nostra, di due esponenti del terrorismo nero quali esecutori materiali deve essere individuata nell’eccezionalità del crimine, le cui motivazioni trascendevano l’ordinaria logica dell’organizzazione mafiosa e coinvolgevano interessi politici che dovevano restare assolutamente segreti, nonché nel momento storico che questa associazione criminale attraversava per dinamiche interne”, scrive il giudice nella sua ordinanza di 1700 pagine. Sono gli “ibridi connubi” ipotizzati da Falcone: l’unione di mondi criminali lontani per compiere delitti di matrice politica. Che tipo di matrice? “La morte di Piersanti Mattarella sembrò seppellire per sempre una stagione irripetibile di rinnovamento ai vertici politici-amministrativi della Sicilia, che ripresero, dopo la smagliante parentesi di Mattarella, le antiche e opache consuetudini”, ha scritto Giovanni Grasso, oggi portavoce del Quirinale, nel suo Mattarella, da solo contro la mafia (San Paolo).
Il pentito Mannoia: “Andreotti sapeva” – Falcone, però, muore a Capaci il 23 maggio del 1992. E dopo il suo omicidio la procura di Palermo considera l’omicidio di Mattarella solo come delitto di mafia. Il pentito Francesco Marino Mannoia aveva raccontato a Falcone che Stefano Bontade ”era contrario all’omicidio Mattarella e si infuriò quando seppe che il presidente era stato assassinato”. Quale mafia ha quindi ordinato di eliminare il presidente della Regione? Quale ha partecipato all’omicidio ordinato per interessi politici che dovevano restare assolutamente segreti? Quella di Riina, che si preparava a vincere la guerra contro i palermitani di Bontade? Dopo la morte di Falcone, però, Mannoia cambia versione, indicando il delitto Mattarella come “deciso dalla Cupola mafiosa”. Tutta la Cupola, all’epoca composta ancora sia da Bontade che da Riina. Il pentito racconta persino che Giulio Andreotti era stato informato dei sentimenti negativi di Cosa nostra per Mattarella. Sono racconti sempre smentiti dal sette volte presidente del consiglio ma certificati dalla Cassazione che ha prescritto il Divo Giulio dall’accusa di mafia per i fatti precedenti alla primavera del 1980. Nel 1979, infatti, Bontade manifestò ad Andreotti il suo fastidio per Mattarella: aveva saputo di un viaggio a Roma del governatore per andarsi a lamentare con qualcuno. Quale viaggio? Poi, continua Mannoia, dopo l’omicidio Andreotti tornò in Sicilia per chiedere conto al boss dell’assassinio. Bontade però lo aggredì: “In Sicilia comandiamo noi e dovete fare come diciamo noi, altrimenti vi leviamo tutti i voti, non solo della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare solo sui voti del Nord, dove votano tutti comunisti”.
l’inversione a U e le assoluzioni – Insomma Mannoia aggiusta il tiro, la procura compie un’inversione a U e chiede l’assoluzione di Fioravanti e Cavallini. E la corte d’Assise, presieduta da Gioacchino Agnello con a latere Silvana Saguto, li assolve. I giudici non credono nemmeno alla vedova, testimone oculare del delitto: “Più passano gli anni, più i miei ricordi si sono fatti nitidi penso di poter dire che non solo è molto probabile, ma quasi certo, che Fioravanti possa essere l’assassino di mio marito”. ”È assai difficile – scrissero i giudici – che la signora Mattarella abbia realmente potuto distinguere sempre meglio nella sua mente, così come da lei dichiarato nel dibattimento, le immagini del killer da quelle di Valerio Fioravanti, più volte poi viste sui giornali, tanto da potersi esprimere oggi in termini di maggior certezza rispetto ad allora”. La situazione cambia in Appello, quando l’allora sostituto procuratore generale Leonardo Agueci – oggi in pensione – chiede la condanna per Fioravanti e Cavallini, poi assolti anche in secondo grado. ”Sono stato sempre convinto e tuttora lo sono che ad uccidere il presidente della Regione furono loro, Fioravanti e Cavallini. Tanto che feci ricorso in Cassazione, anche se purtroppo i giudici non mi vollero credere”, ha detto nel 2016 al Fatto Quotidiano. La pensava come lui Francesco Crescimanno, avvocato della famiglia: ”Continuo a credere che il killer del presidente fosse Valerio Fioravanti”. L’assoluzione di Giusva, però, è diventata definitiva. Come definitiva è la condanna della Cupola: i mandanti dell’omcidio Mattarella sono Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Michele Greco. E gli esecutori? Buio pesto fino ad ora. Da circa un anno, infatti, la procura di Palermo ha aperto un nuovo fascicolo per provare a mettere ordine tra i tanti punti oscuri dell’omicidio Mattarella.
Pistole, proiettili e misteri – A cominciare dai proiettili usati per ucciderlo. I primi quattro sono stati esplosi con una calibro 38 special, tipo Colt. Non era la tipica arma usata dai mafiosi, che quasi mai hanno impugnato le Colt preferendo mitragliatori e fucili. Eppure un’arma simile è stata utilizzata anche per uccidere Michele Reina. E una colt calibro 38 modello Cobra è il tipo di pistola usata da Cavallini per ammazzare con un solo colpo alla nuca il giudice Mario Amato il 23 giugno del 1980. Per gli esperti del Racis dei carabinieri i proiettili che hanno ammazzato Mattarella sono “coincidenti” con la cobra usata dai Nar. La certezza non si può avere, perché come hanno raccontato sull’Espresso Lirio Abbate e Paolo Biondani, i proiettili estratti dal corpo di Mattarella si sono ossidati a causa del cattivo stato di conservazione. Il primo a parlare della pistola usata da Cavallini per ammazzare Amato è il pentito Walter Sordi: la definisce una pistola “delicata” perché “aveva dei difetti” e “poteva incepparsi“. Sarà solo una coincidenza, l’ennesima, ma il killer di Mattarella spara quattro colpi ma poi deve fermarsi perché la sua arma s’inceppa.
Il delitto perfetto – Quello della pistola non è l’unico punto rimasto insoluto del delitto Mattarella. C’è, per esempio, la targa della 127 bianca dei killer: l’auto risulterà rubata e con una targa falsa. È il frutto di due pezzi di targhe diverse assemblati tra loro. Altri pezzi di targa, compatibili con quelli della Fiat, verranno trovati due anni dopo in un covo di Terza Posizione a Torino. “Quanto rinvenuto – scriverà D’Ambrosio – va sottoposto ad accurato accertamento, poiché anche la sola coincidenza ha aspetti di stupefacente singolarità“. Una traccia di verità accertamento sul frammento di impronta trovato sullo sportello della Fiat 127: era del killer? All’epoca la tecnologia non consentiva rilievi di questo tipo. Oggi però si potrebbero trovare persino tracce di Dna in quell’automobile: che fine ha fatto la Fiat 127? È stata rottamata? Su quella macchina venne ritrovato anche un guanto: oggi sarebbe utilissimo per cercare una traccia genetica dei killer. Ma sparito pure quello: non si trova più. E rischiava di scomparire anche una testimonianza fondamentale dell’inchiesta. Alcune settimane prima di essere assassinato, infatti, Mattarella era volato a Roma per andare a incontrare il ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Tornato a Palermo disse a Maria Trizzino, sua più stretta assistente: “Se sapessero di cosa abbiamo parlato mi ucciderebbero“. Di cosa hanno parlato? È a quell’incontro che si riferisce il boss Bontate quando si lamenta con Andreotti? Dirà Rognoni che lui e Mattarella parlarono di ordine pubblico in Sicilia, e cioè di mafia. Ma lo dirà solo un anno e mezzo dopo il delitto. Il racconto della Trizzino sul dialogo con Mattarella viene inserito in un’informativa della Mobile già nel marzo del 1980. Quell’informativa, però, non venne trasmessa ai magistrati. La scoprirà per caso il giudice Rocco Chinnici e convocherà quindi Rognoni. Ma per quale motivo quel verbale così importante sulla confidenza di Mattarella (“Se sapessero di cosa abbiamo parlato mi ucciderebbero“) non viene mandato in procura? Fu un tentativo di depistaggio visto che all’epoca, come abbiamo visto, gli organi investigativi palermitani erano in orbita P2? Ed è per questo che Gelli definì l’omicidio Mattarella un “delitto perfetto“? Quarant’anni dopo sembra avere ancora ragione lui.
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