“Alcune risultanze acquisite nel corso delle indagini hanno consentito di rilevare l’influenza della locale di ‘ndrangheta di Vibo Valentia nella società calcistica del capoluogo di provincia la cui squadra ha raggiunto lo scorso anno la promozione al campionato di Lega Pro”. Lo scrivono i pm di Catanzaro nella richiesta di arresto dell’inchiesta “Rinascita-Scott” dove c’è un intero capitolo dedicato a come i Mancuso, negli anni, hanno infiltrato la Vibonese. Tra i 334 arresti eseguiti lo scorso 19 dicembre, infatti, c’è quello dell’imprenditore Francesco Michelino Patania, detto “Ciccio Bello”, ritenuto “partecipe alla ‘ndrina Lo Bianco-Barba” satellite della cosca Mancuso. Un’appartenenza che, secondo gli inquirenti, ha contribuito a far fallire il tentativo di estorsione che il costruttore indagato e il figlio hanno subito nel 2017 quando altri affiliati alla cosca hanno lasciato la carcassa di un delfino davanti all’ingresso della sua azienda.

Definito dagli inquirenti “componente apicale della società di ‘ndrangheta di Vibo Valentia”, Patania “Ciccio Bello” “risulta essere una costante presenza nell’assetto dell’organizzazione calcistica cittadina”. Con il 20% delle quote, infatti, è stato vicepresidente della squadra di calcio nella vecchia società e compare tra i soci della nuova, la “U.S. Vibonese Calcio Srl” il cui presidente è Giuseppe Giovanni Caffo, il patron del famoso “Amaro del Capo”, “il noto imprenditore e proprietario – è scritto nella richiesta di arresto firmata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri – dell’industria dedita alla fabbricazione di liquori con sede a Limbadi”. Proprietario del 30% delle quote, Caffo “risulta essere anche l’amministratore unico della società”. Oltre che nella composizione aziendale della Vibonese, il nome di Caffo (non indagato) compare nei verbali del pentito Andrea Mantella che alla Dda ha spiegato “le infiltrazioni delle consorterie mafiose nelle società di calcio”.

“L’andamento di queste ultime, secondo i pm, “veniva accostato a quello delle società operanti nell’edilizia e nel calcestruzzo, in cui i veri soci, in quanto finanziatori occulti, erano i vertici delle consorterie”. Calcio, mattone e ‘ndrangheta per il pentito sono una cosa sola. L’8 settembre 2016 il collaboratore di giustizia Mantella è un fiume in piena quando ricostruisce i collegamenti tra le cosche e le società sportive che passano dalle imprese edili e dagli affari al porto di Gioia Tauro. “Quanto alla ‘Vibo Calcestruzzi’, – fa mettere a verbale il pentito – la stessa nasce con i soldi dei mafiosi e con i soldi del commendatore Carmelo Fusca (ex presidente della Vibonese Calcio, ndr), che era a conoscenza dell’operazione e faceva parte della cricca. Si diceva che Carmelo Fusca, quando ha saputo che la Dda si stava occupando delle vicende legate alle forniture di calcestruzzo al porto di Gioia Tauro e su tutto il territorio vibonese, si è messo da parte e ha lasciato agli altri soci. Allo stesso modo successe per la società ‘Vibonese Calcio’”.

“La Vibo Calcestruzzi – continua Mantella – praticamente forniva il materiale su tutto il territorio della provincia, in regime di monopolio, salvo qualche briciola che veniva lasciata agli altri. Questo avveniva perché tutti i gruppi criminali sponsorizzavano le sue forniture. Per conto dei Mancuso poi la ‘Vibo Calcestruzzi’ fu ceduta a Mazzei Salvatore quello di Lamezia (il suocero del deputato della Lega Domenico Furgiuele che non è indagato, ndr), mentre la ‘Vibonese Calcio’ a Caffo di Limbadi, quello dell’Amaro del Capo, ed in questo modo i gruppi rientrarono dei soldi e la Dda non poteva sequestrare nulla a loro riferibile”. Se l’assetto societario lascia a dir poco a desiderare, secondo la Dda il resto è anche peggio: “Salle attività investigative – scrivono i pm – sono emerse delle risultanze che consentono di delineare ulteriori ingerenze della consorteria di ‘ndrangheta di Vibo Valentia nella gestione della società calcistica. In particolare, emergerà come gli esponenti della ‘ndrina Cassarola abbiano assunto il pieno controllo e la gestione diretta del bar ubicato all’interno dello stadio “Luigi Razza” di Vibo Valentia, attivo ogni qualvolta la squadra di calcio vibonese gioca in casa, ciò consentendo l’arricchimento della consorteria ed aumentandone il prestigio”.

A gestire il bar dello Stadio era direttamente il boss Rosario Pugliese, detto “Saro Cassarola”, anche lui arrestato nell’inchiesta “Rinascita-Scott”. Quest’ultimo, nipote dell’imprenditore Patania “Ciccio Bello”, “si avvaleva dei propri sodali per svolgere le varie mansioni, dal banconista al magazziniere”. Tra questi c’era Orazio Lo Bianco finito ai domiciliari nell’inchiesta “Rinascita”. Nel marzo 2018, Lo Bianco era stato raggiunto da un Daspo per tre anni e questo ha fatto andare su tutte le furie il boss Pugliese. Così tanto che, in occasione della partita Vibonese-Messina finita 2 a 0 il 4 marzo 2018, Saro “Cassarola” telefona a Lo Bianco e lo rimprovera: “Mi hai rovinato! – gli dice mentre è intercettato dai carabinieri – Sai che c’era oggi? Minimo minimo incassavamo mille euro oggi”.

Il bar, quindi, era in mano alla ‘ndrangheta e questo per volere della società sportiva. “La gestione di tale attività – scrivono infatti i pm – non derivava da autorizzazioni emesse dagli organi competenti, ma semplicemente dal fatto che ciò gli veniva concesso dalla società calcistica”. In sostanza si trattava di un bar, all’interno dello stadio della Vibonese, completamente abusivo fino a quando Orazio Lo Bianco non ha ricevuto il Daspo. Solo allora l’esercizio commerciale è stato ricondotto al boss Rosario Pugliese e sono scattati “i controlli da parte delle autorità preposte, le quali accertavano l’assenza di autorizzazioni. Ma nonostante ciò la ‘ndrina riusciva a sanare tali carenze”. Come? Lo spiegano sempre i pm nella richiesta di arresto: “Pugliese – si legge infatti nelle carte dell’inchiesta – riusciva verosimilmente a sanare le carenze autorizzative, vantando entrature presso l’ente comunale che avrebbe dovuto emettere le autorizzazioni. In tale contesto quest’ultimo vantava l’appoggio da parte della società calcistica, con l’intervento del presidente (Caffo Giuseppe) in persona a perorare la causa dell’apertura del bar innanzi al questore”. Tentato non riuscito come spiega uno dei responsabili della società calcistica allo stesso Saro “Cassarola”: “Sono andato li sopra all’una e venti… – avrebbe detto il dirigente della Vibonese al boss – Quando sono andato là… ho aspettato che veniva.. ho fatto parlare il presidente pure., della Vibonese.. eh… gli ha detto che no no che… non devono aprire…che qua che la e tutte queste barzellette”.

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