Continuano le polemiche sulla maxi-operazione “Rinascita-Scott” contro la ’ndrangheta, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro e dall’Arma. Nella rete sono finiti mafiosi e colletti bianchi, politici, funzionari pubblici, membri della polizia giudiziaria, imprenditori e professionisti. Il 19 dicembre si contano ben 334 arresti e 416 indagati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidio, usura, riciclaggio, fittizia intestazione di beni e altri reati aggravati dal metodo mafioso. Quindici milioni di beni sottoposti a sequestro. Tremila i carabinieri impiegati. Scene insomma che ricordano quel capolavoro di Sordi, Tutti dentro, del 1984.

“È la più grande operazione dopo il maxiprocesso di Palermo”, commenta quel giorno il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. E aggiunge: “Abbiamo disarticolato completamente le cosche della provincia di Vibo, ma l’indagine ha interessato tutte le regioni d’Italia, dalle Alpi alla Sicilia”. Immancabilmente arrivano le contestazioni. Proprio come il giudice Salvemini (Alberto Sordi) – uomo zelante e scrupoloso, magistrato fiero e irreprensibile – anche Gratteri diventa bersaglio di feroci critiche. L’accusa principale è la “spettacolarizzazione” di inchieste che si riveleranno un flop.

Dall’altra parte, la levata di scudi da parte di chi segue da sempre, con speranza, le attività del magistrato (e scrittore) calabrese. In molti hanno piuttosto denunciato lo scarso interesse, da parte della stampa nazionale, per un’indagine così importante. Dalla parte di Gratteri si è schierato senza indugio il Siulm (Sindacato Unitario Lavoratori Militari) che si è complimentato col pm per la sua battaglia “vitale per la democrazia”. E anche il Nsc (Nuovo Sindacato Carabinieri) ha espresso parole di apprezzamento per l’inchiesta, cogliendo l’occasione per rivendicare un trattamento economico più adeguato.

Tuttavia, a me pare che sia stato davvero sottaciuto l’aspetto più inquietante della vicenda: la fuga di notizie. In conferenza stampa Gratteri racconta nientedimeno di esser stato costretto ad anticipare il blitz di un giorno, perché gli indagati sapevano degli arresti. “Ma voi capite cosa vuol dire spostare 3000 uomini, è una cosa da folli, ma dopo aver avuto la certezza che la ’ndrangheta sapeva che l’operazione sarebbe scattata l’alba di venerdì 20, allora bisognava essere folli, anticipare”.

Gratteri definisce “impressionante” il potere delle cosche calabresi di penetrare negli apparati statali. Del resto, sappiamo bene che la vera forza della mafia sta fuori dalle mafia, risiede nelle complicità della cosiddetta “zona grigia”. Ebbene in questi casi sono tante le domande da porsi. Chi ha violato il segreto delle indagini? Perché l’ha fatto? Quando gli indagati hanno saputo di essere indagati? Anche perché chi commette reati di solito si impegna a nasconderne le tracce e lo fa soprattutto se viene a sapere di esser finito sotto la lente degli inquirenti. Ovviamente potremo farci un’idea di quanto siano state inquinate le indagini solo al termine del processo.

Purtroppo, le cronache giudiziarie ci mostrano diversi casi di appartenenti alla polizia giudiziaria che tradiscono il giuramento di fedeltà alla Repubblica. Andrebbe posta allora una “questione morale”. Bisognerebbe chiedersi cosa li spinge a passare, per esempio, dalla parte della ’ndrangheta. Lo stipendio basso o la sete di potere?

L’antropologo Edward C. Banfield, nel sempre attuale saggio Le basi morali di una società arretrata (1958), ricollegava queste devianze all’assenza di identificazione con gli scopi dell’organizzazione. Non va poi tralasciato il problema della tutela del segreto investigativo, che renderebbe più difficili certe patologie. A tal proposito va detto che esistono ben due norme, di dubbia legittimità costituzionale, senz’altro in contrasto con la regola del segreto: la prima obbliga i carabinieri a riferire delle indagini in corso alla scala gerarchica e la seconda prevede la costante comunicazione ai servizi centrali di polizia giudiziaria (Sco, Ros e Scico) delle informazioni relative alle inchieste antimafia.

Certo sarebbe auspicabile – come ha più volte sottolineato Cleto Iafrate, esperto di diritto militare – che una riflessione di questo tipo venisse stimolata dai nascenti sindacati delle Forze armate. È fondamentale mettere al riparo le indagini dalle talpe e da ingerenze esterne, per il bene di chi lavora onestamente e nell’interesse della collettività.

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