Televisione

Teodosio Losito, a un anno dalla scomparsa dello sceneggiatore una lettura del suo modo unico (amato o odiato) di fare televisione

"Hanno detto di tutto, per questo sono diventato insensibile: quando è troppo vuol dire che è niente. Oggi tutta l’accozzaglia di robaccia che hanno cercato di buttarmi addosso non attecchisce più", rispose Losito nell’ultima intervista, una delle rare concesse in tanti anni di carriera, a Panorama. Ma della valanga di stroncature ricevute ce n’era una di Aldo Grasso che proprio non aveva metabolizzato

di Francesco Canino

C’è una scena indimenticabile de Il bello delle donne in cui la cattivissima Annalisa Bottelli – una Giuliana De Sio di sublime perfidia con sfumature alla Joan Crawford – guida disperata nella notte dopo una lite con l’amante, l’ennesimo, fuma nervosa poi getta la sigaretta dal finestrino: la cicca piomba nella vettura di passaggio sull’altra carreggiata, centra la donna al volante che sbanda per lo spavento, si schianta e muore. Poche scene dopo riecco la Bottelli tra le braccia del vedovo, con cui finisce per fidanzarsi in pianta stabile salvo poi mollarlo dopo poche puntate perché travolta dai sensi di colpa. È stata lei infatti, destino beffardo, a uccidere la moglie del suo amante.

Bastano davvero pochi ciak per entrare nell’estetica di Teodosio Losito – lo sceneggiatore di fiction campioni di ascolti, da L’onore e il rispetto a Pupetta, morto suicida un anno fa, l’8 gennaio 2019 – e restarne folgorati, scioccati o infastiditi. La via di mezzo, quando si parla di Losito, non è concessa, l’indifferenza non è contemplata. Piccola indispensabile premessa: questa non è un’agiografia lositiana, al massimo è il tentativo di dare a Losito ciò che è di Losito. O meglio, di Losito e Alberto Tarallo, coppia nella vita privata (per 19 anni) e nel lavoro, quattro mani e due teste che per quasi un ventennio hanno alimentato l’archivio della fiction Mediaset e fatto la fortuna di una nutrita pattuglia di attori la cui gratitudine nei loro confronti dovrebbe essere eterna.

In attesa di una riabilitazione postuma delle “tarallate”, com’è successo con certi b-movie degli anni ’70 o col filone dei cinepanettoni, vale la pena di provare a capire quali tracce restano del Losito-style. Sicuramente il coraggio di essersi “sporcato le mani” affondandole nel melodramma vigoroso, vissuto come una tela bianca in cui mischiare dosi abbondanti sentimenti forti, piccoli personaggi carichi di grettezza e invidie, drammi dalle iperboli smisurate o surreali (vedi la cattivissima Ida Di Benedetto che si vendica manomettendo i freni dell’amante gay del figlio o Eva Grimaldi uccisa a colpi di fucile), personaggi vulnerabili, mafiosi che bramano la redenzione, immigrati dal profondo sud in cerca del riscatto sociale e maliarde di provincia i cui sogni da eroina classica si infrangono spesso contro i bicipiti scolpiti di un aitante Gabriel Garko.

Più barocco di così, non si può, eternamente in bilico com’era tra le atmosfere fotoromanzesche e il feuilleton color cipria. Un po’ Liala, un po’ Jackie Collins, solo che le sue signore vivevo sulla rocca di Orvieto invece che tra le ville di Hollywood. «Hanno detto di tutto, per questo sono diventato insensibile: quando è troppo vuol dire che è niente. Oggi tutta l’accozzaglia di robaccia che hanno cercato di buttarmi addosso non attecchisce più», rispose Losito nell’ultima intervista, una delle rare concesse in tanti anni di carriera, a Panorama. Ma della valanga di stroncature ricevute ce n’era una di Aldo Grasso che proprio non aveva metabolizzato, quella in cui il critico del Corriere della sera sottolineò le “atmosfere queer” delle sue fiction: «L’ho trovata una sottolineatura banale, stupida, inutile: avrei preferito che dicesse “dai forti accenti gay”. Mi ha dato fastidio perché vuoi raccontare che io sono frocio e quindi che scrivo da frocio. L’ho trovato greve, ha messo del pecoreccio per sminuire la mia professionalità: ma io scrivo da Losito non da omosessuale».

E con un curioso effetto rimbalzo, o diretta proporzionalità, più la critica lo bastonava, più gli ascolti salivano. 6,7 milioni di spettatori per l’ultima puntata de Il bello delle donne, nel 2003; oltre 7 milioni per L’onore e il rispetto; 5 milioni per Mogli a pezzi e Pupetta, con una Manuela Arcuri da dimenticare; 6,4 milioni per Il peccato e la vergogna. Sia chiaro, il paragone con i numeri di oggi è impossibile: parliamo di un’era televisiva fa e nel frattempo la serialità è stata completamente rivoluzionata dall’ingresso a gamba tesa dei player internazionali, il pubblico ha gusti radicalmente cambiati. Come se non bastasse la fiction Mediaset vive un stagione di profonda rivoluzione che (forse) darà i suoi frutti solo tra qualche anno. Però il confronto è impietoso e fa un certo effetto guardare ai nano share intorno al 10% dei flop più recenti – vedi Oltre la soglia, con la Pession, e Il processo, con la Puccini, entrambi prodotti di grande qualità, entrambi rifiutati dal pubblico – e ripensare ai picchi massimi della stagione d’oro delle serie di Losito e Tarallo (che con la TaoDue di Valsecchi hanno dominato per anni a Cologno, ben prima che Canale 5 appaltasse day time, preserali e prime time all’imbarazzante Il segreto).

La formula del loro successo? Intercettare i gusti di un certo pubblico, far sognare la casalinga e contemporaneamente stuzzicare un certo omoerotismo, sconfinare in un trash che fa il giro e diventa ferocissima avanguardia (almeno per i cultori del genere). «Non c’è la combinazione scientifica per fare una confezione precisa: capita di inserire in una sceneggiatura quello che ti appartiene, la magia è quando anche il pubblico ama o si riconosce in quello che proponi», spiegava Losito. E lui ci è riuscito a lungo, salvo poi perdere il tocco magico e scivolare verso insuccessi conclamati, da Furore 2 fino al disastroso remake de Il bello delle donne o alla quinta evitabilissima stagione de L’onore e il rispetto, nel 2017. A quel punto era ormai evidente che persino lo zoccolo duro dei fan di Garko e Arcuri – le loro creature più riuscite – si fosse stufato dello storytelling ingarbugliato, dell’abuso di parrucche (perché fossero sempre tutti perfettamente pettinati e imbalsamati anche al risveglio, resta un mistero), dell’eccesso di gocce di glicerina (non c’era fiction lositiana in cui in si piangesse tanto, sul set e su il divano di casa, di fronte alla ferocia olimpica di certi protagonisti), del trionfo di sospiri (unico appiglio per la truppa degli attori smaccatamente inespressivi) e del citazionismo spinto che era difficile cogliere (come la sigla de Il bello delle donne, chiaro omaggio a Come foglie al vento di Douglas Sirk).

Nel frattempo però Losito, guidato per mano da Tarallo, il vero cinefilo dei due, si era già tolto tutti gli sfizi, come ha spiegato il critico Rocco Moccagatta, che su Link-Idee per la tv l’ha definito il Ryan Murphy italiano, paragonandolo al potente showrunner di Glee e Pose. «Ha potuto frequentare generi ormai proibiti alla produzione cinematografica italiana: il mafia movie (L’onore e il rispetto), il giallo all’italiana (Io ti assolvo) e para-argentiano (Caldo criminale), il thriller (Viso d’angelo), lo storico-papalino-risorgimentale alla Magni (Il sangue e la rosa), il war movie screziato di neorealismo (Il peccato e la vergogna), tutti condotti oltre il punto di non ritorno dell’eccesso irredimibile del melò». Melò in cui osare l’inosabile, con cast orgiastici in cui era possibile trovarci di tutto, dalla diva sul viale del tramonto alla star mai esplosa, passando per miracolati in cerca d’autore e attrici dai lineamenti stravolti anzitempo dalla chirurgia plastica (e per questo irriconoscibili persino ai parenti primi). Per fortuna c’erano poi i pesi massimi, come l’immensa Virna Lisi, Stefania Sandrelli, Rossella Falk, Franco Nero, Lisa Gastoni, Giancarlo Giannini, Lina Sastri e la De Sio, pilastri chiamati a puntellare il tentennamento continuo mescolato alla totale mancanza di talento di certi attori miracolati da Losito-Tarallo con un ruolo. Gli stessi per i quali evidentemente la riconoscenza è il sentimento della vigilia visto che nel giorno dell’anniversario della sua morte, tra un selfie e una stories, i molti che gli dovevano tutto (o quasi tutto) non hanno trovato un minuto di tempo per scrivere una riga in suo ricordo. Peccato.

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